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GLI EROI CHE SALVARONO IL CRISTIANESIMO E LA CIVILTA' OCCIDENTALE

Ultimo Aggiornamento: 03/12/2008 15:28
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LA BATTAGLIA DI VIENNA E RE JAN III SOBIESKI
La battaglia di Vienna di Józef Brandt
Data: 12 settembre 1683
Luogo: a Kahlenberg presso Vienna, Austria
Esito: Vittoria strategicamente decisiva della coalizione cristiana

Schieramenti
Lega Santa (guerre austro-turche) Impero Ottomano
Comandanti
Jan III Sobieski Gran Visir Kara Mustafa
Effettivi
80.000 - 140.000
Perdite
4.000 morti 15.000 morti
La battaglia di Vienna (polacco: Bitwa pod Wiedniem, tedesco: Schlacht am Kahlenberg, ucraino: Віденська відсіч (Viděns'ka Vidsič), turco: İkinci Viyana Kuşatması) ebbe luogo l'11 e il 12 settembre 1683 ponendo fine all'assedio che l'esercito turco aveva messo per due mesi alla città di Vienna.

Questa battaglia campale fu combattuta dall'esercito polacco-austro-tedesco comandato dal re polacco Jan III Sobieski contro l'esercito dell'Impero ottomano comandato dal Gran Visir Merzifonlu Kara Mustafa Pasha, e fu l'evento decisivo delle guerre austro-turche, conclusesi definitivamente con la firma del Trattato di Karlowitz.

L'assedio di Vienna fu posto a partire dal 14 luglio 1683 dall'esercito dell'Impero Ottomano, composto da circa 140.000 uomini. La battaglia decisiva cominciò l'11 settembre, quando cioè si concluse il raggruppamento dei rinforzi dalla Polonia, comandati ovviamente da Sobieski stesso, dalla Germania e dal resto dell'Austria, oltre alle forze presenti nella città.

L'imperatore Leopoldo I si era rifugiato a Passau, da cui dirigeva l'attività diplomatica (supportato dalla diplomazia del papa Innocenzo XI) indispensabile per tenere unito un esercito così variegato in un momento tanto drammatico; di conseguenza i capi militari della città non esitarono a conferire a Sobieski il comando dell'esercito così composto

30.000 polacchi;
18.500 austriaci, al comando di Carlo V duca di Lorena;
19.000 franconi, svevi e bavaresi, al comando di Giorgio Federico di Waldeck;
9.000 sassoni, al comando di Giovanni Giorgio III di Sassonia.
In tutto quindi le forze europee contavano su 75/80.000 uomini, contro 140.000 ottomani. Va però detto che da un lato le forze cristiane conoscevano malissimo il territorio essendo appena arrivate, mentre i soldati all'interno della città erano alquanto mal ridotti a causa dei due mesi d'assedio. Questo fatto è tuttavia compensato dalla scarsissima preparazione militare di 2/3 buoni dell'esercito ottomano. In pratica la battaglia fu uno scontro fra i polacchi e la parte militarmente più capace dell'esercito del Gran Vizir.

Il grosso dell'esercito ottomano investì Vienna ed i suoi difensori il 14 luglio. Il conte Ernst Rüdiger von Starhemberg, capo delle truppe superstiti (circa 20.000 uomini) rifiutò di arrendersi e si chiuse dentro le mura della città.

I difensori avevano abbattuto le case che circondavano la città, in modo da non lasciare alcun riparo per chiunque si avvicinasse alle mura. Kara Mustafa Pasha risolse il problema facendo scavare delle profonde trincee che dal campo ottomano menavano alle mura, limitando così di molto il numero di batterie viennesi in grado di colpire i soldati che si avvicinavano.

Dato che le mura della città erano molto solide ed i cannoni ottomani piuttosto vetusti ed inefficaci, gli assedianti pensarono bene di minare le mura (come fecero già a Candia contro i veneziani) anziché distruggerle a cannonate. Le trincee furono così prolungate fin sotto le mura dove vennero poste le cariche esplosive. Anche questa tecnica però non parve sortire gli effetti sperati e soprattutto non fiaccò il morale degli assediati.

Gli ottomani avevano quindi due alternative: attaccare frontalmente, con successo pressoché certo vista la loro enorme superiorità numerica; oppure continuare l'assedio lasciando a fame e malattie il compito di indebolire i difensori. Così decisero di fare.

La ragione che spinse il Gran Vizir a optare per l'assedio furono non tanto le enormi perdite che avrebbe comunque subito il suo esercito, quanto le ricchezze contenute nella città, che sarebbero state di molto rovinate da una battaglia che si annunciava furibonda. Kara Mustafa non aveva però messo in conto che Leopoldo I a Passau aveva ormai concluso l'accordo con i suoi alleati, tra cui spiccava Sobieski e la sua potentissima cavalleria, che si preparava infatti a marciare verso Vienna. Va infatti ricordato che Kara Mustafa era tranquillo in quanto la maggior potenza continentale dell'epoca, cioè la Francia, era rimasta neutrale, e si guardava bene dall'intervenire sperando in un ulteriore indebolimento dell'Austria.

L'assedio fu ovviamente durissimo, con malattie, fame e morte all'ordine del giorno. Ormai il destino della città era segnato, e i turchi aspettavano solo di mettervi le mani sopra, quando finalmente giunse nei pressi di Vienna Carlo V ed i suoi uomini. Questi furono subito fronteggiati dagli ungheresi di Imre Thököly, alleati dei turchi, ma l'effetto sorpresa unito al morale altissimo degli austriaci ebbe la meglio e gli ungheresi si dovettero ritirare nel campo turco.

Kara Mustafa a questo punto capì che la presa di Vienna non era così a portata di mano come sembrava, e quindi diede ordine di procedere alla distruzione delle mura e di prepararsi all'assalto finale, rinunciando ad inseguire Carlo V che nel frattempo si era allontanato dalla città. La situazione pareva di nuovo volgere a favore degli assedianti in quanto le mura poco a poco si assottigliavano erose dalle mine turche. Prevedendo la prossima apertura di una breccia nelle mura i viennesi si prepararono al combattimento strada per strada.


[modifica] I preparativi
La situazione era a questo punto più che caotica. Da un lato turchi ancora superiori numericamente ma spaventati dall'arrivo di Carlo V e soprattutto terrorizzati dall'arrivo, ormai imminente, del grosso dei rinforzi di cui si era sparsa la notizia. Dall'altro i viennesi che sentivano la morsa stringersi su di loro, certi ormai dell'esito infausto che li aspettava. Infine Carlo V che aspettava solo più Sobieski (nel frattempo si erano uniti ai rinforzi i principi tedeschi).


SobieskiE infatti Sobieski varcò il Danubio il 6 settembre a Tulln, 30 km da Vienna, e fu subito posto a comando dell'ormai formidabile armata che si era riunita (Lega Santa). Sobieski dimostrò in quell'occasione una lungimiranza assai rara per i re dell'epoca. Infatti l'aiuto che gli chiese Leopoldo I non portava nulla al regno di Polonia che in quegli anni era impegnato in lotte altrettanto crude con i vicini Regno di Svezia e Impero Russo. Egli accettò poiché aveva capito che la caduta di Vienna avrebbe spalancato ai turchi le porte della Germania ancora devastata dalla recente guerra dei trent'anni e una volta in Germania nessuno avrebbe potuto fermare l'espansionismo ottomano.

Non altrettanta lungimiranza mostrò Kara Mustafa, che anzi non fece nulla per motivare il suo esercito e fidelizzare le truppe non turche che ne componevano la gran parte. Addirittura il Khan di Crimea, esitò quando ebbe l'occasione di attaccare la cavalleria pesante di Sobieski quando questa si trovava sulle colline a nord di Vienna, cioè in una situazione di estrema vulnerabilità. E non fu l'unico caso di divisione interna nel fronte turco.

Un altro errore fu quello di non occupare più ampiamente le colline a nord di Vienna, lasciando così praticamente indifesi i ponti che dal Nord conducono alla città, interamente costruita sulla riva Sud del Danubio.

Le forze della Lega Santa si riunirono così l'11 settembre sul Kahlen Berg (Monte nudo) pronte alla resa dei conti con gli ottomani. Nelle prime ore del mattino del 12 una messa propiziatoria venne celebrata, e la tradizione tramanda che Sobieski ne fu il chierichetto.


[modifica] La battaglia
La battaglia ebbe inizio subito dopo la messa, all'alba. Furono i turchi ad aprire le ostilità nel tentativo di interrompere il dispiegamento di forze che la lega santa stava ancora ultimando. Carlo V ed i tedeschi rintuzzarono l'attacco in attesa che Sobieski ed i suoi fossero pronti.

Kara Mustafa ancora una volta rinunciò ad ingaggiar battaglia sperando di riuscire a entrare in Vienna in extremis, lasciando così altro tempo alle forze cristiane di ultimare il dispiegamento. Ma ormai le sorti volgevano decisamente in favore degli europei, e addirittura gli assediati, galvanizzati dall'arrivo dei rinforzi, attaccavano le file turche. La battaglia era cominciata, furibonda come e più del previsto. I turchi pagarono subito l'errore di non essersi preparati a difendersi dalle forze provenienti dal nord, trovandosi di fatto con l'élite dell'esercito (i Giannizzeri) schierati dove non serviva, cioè presso le mura che erano ancora in piedi, e le retroguardie difese solo da truppe poco preparate. A questo punto Kara Mustafa capì che la battaglie era persa, e tentò con tutte le forze di vendere cara la pelle, cioè prendere Vienna, complicando così di molto i piani della Lega Santa e soprattutto infliggendole lo smacco di entrare in città proprio mentre la battaglia volgeva a favore dei cristiani.

Anche questo piano fallì. Ma ancora l'esercito cristiano non aveva giocato la sua carta più forte: la cavalleria polacca. Nel tardo pomeriggio dopo aver seguito dalla collina l'andamento dello scontro 4 divisioni di cavalleria (1 tedesca e 3 polacche) scesero all'attacco a passo di carica. L'attacco fu condotto da Sobieski in persona e dai suoi 3000 Ussari. La carica sbaragliò definitivamente l'esercito turco, mentre gli assediati uscirono dalle mura a raggiungere i rinforzi che già inseguivano gli ottomani in rotta.

La battaglia di Vienna vide anche l'esordio in combattimento di un futuro, grande condottiero: Eugenio di Savoia.


[modifica] Esito
I turchi persero circa 15.000 uomini, a fronte dei 4 000 dei cristiani, i quali recuperarono anche una gran parte del bottino accumulato dagli ottomani nel corso delle loro scorrerie nei Balcani.

Kara Mustafa pagò con la vita i suoi errori strategici e soprattutto tattici: il 25 dicembre successivo fu decapitato a Belgrado, che a sua volta si apprestava a capitolare.


[modifica] Conseguenze

Lapide commemorativa del contributo decisivo dell'Esercito polacco alla Battaglia di ViennaLa battaglia rappresentò il punto di svolta, a favore degli europei, delle guerre austro-turche. Infatti non solo segnò l'arresto della spinta espansionistica ottomana in Europa, ma anche l'inizio della riconquista dei Balcani: poco dopo infatti gli austriaci occuparono l'Ungheria e la Transilvania, firmando quindi nel 1699 la pace coi turchi (Trattato di Karlowitz).

Il comportamento di Luigi XIV fu a dir poco miope in quanto la sua neutralità non solo aveva fatto correre il rischio al continente intero (Francia inclusa) di cadere nelle mani dei turchi, ma aveva anche gettato le basi (già molto solide peraltro a causa della guerra dei trent'anni) per un rapporto di conflittualità con le popolazioni di lingua tedesca destinato a protrarsi fino alla seconda guerra mondiale. Come se non bastasse la Francia ne aveva approfittato anche per rosicchiare territori ai confini con la Germania, Alsazia, Lussemburgo ecc. inasprendo ulteriormente i rapporti coi principi tedeschi, inasprimento che pochi anni dopo sfociò nella Guerra della Lega di Augusta.


Sobieski manda al Papa il messaggio della vittoria dipinto di Jan MatejkoSobieski naturalmente fu riconosciuto l'eroe della battaglia, e una una chiesa fu eretta sul Kahlenberg in onore del re polacco.

Sul piano diplomatico le conseguenze dalla battaglia furono tutt'altro che positive. Come spesso capita, la vittoria sul nemico comune fu seguita da liti, ripicche, veti e quant'altro di peggio la politica sa tirar fuori in occasione dello scioglimento delle alleanze puramente militari. Sobieski infatti non seppe far pesare abbastanza il fatto di aver salvato l'impero d'Austria, e si trovò addirittura un nemico in più da fronteggiare oltre alle già citate Russia e Svezia e soprattutto la bellicosissima Prussia, tutt'e tre neutrali nel conflitto coi turchi e militarmente in via di potenziamento. Fu così che nel 1772 la Polonia letteralmente scomparì (prima spartizione della Polonia) ed i suoi territori furono spartiti fra le tre superpotenze dell'Europa centrale: Austria, Russia e Prussia.


[modifica] Curiosità
La tradizione vuole che la forma dei croissant fosse stata ideata dopo l'assedio dai pasticcieri viennesi, ispirati dalle insegne ottomane che ancora oggi recano la mezzaluna, a celebrazione dello scampato pericolo. Questa tradizione potrebbe essere solo una leggenda popolare: il nome croissant è un termine francese, che si traduce in italiano sia con l'aggettivo "crescente", che con il sostantivo "mezzaluna" Vi è pure un'altra versione sulla diffusione del croissant. Secondo tale versione questi erano dolci preparati dai pasticceri turchi al seguito dell'armata che assediava Vienna (il seguito di tale armata era una vera e propria città mobile, con harem, eunuchi, saltimbanchi, cuochi e così via). Messo in rotta l'esercito turco, le truppe alleate avrebbero catturato alcuni di questi pasticcieri con i loro dolci ed i croissant, subito imitati in Vienna e quivi così "battezzati"[1], riscossero il successo che conosciamo. In Austria ed in Svizzera però questo dolce è conosciuto soprattutto con il nome tedesco Gipfel (cornino).
Non si ha notizia tuttavia di ricette stampate sulla loro preparazione antecedenti il XIX secolo.
Ancora oggi in Polonia sono vendute le sigarette di marca Sobieski per commemorare il grandissimo sovrano.
É storicamente provato che un notevole contributo alla vittoria di Sobieski fu arrecato dal graduato polacco Franciszek Jerzy (= Giorgio) Kulczycki, che svolse attività di spionaggio trafficando con i turchi in sacchi di caffè, ma in realtà fornendo al comando polacco notizie sulla dislocazione delle truppe turche e sui loro movimenti. Finito l'assedio Jan III lo ricompensò con una scritta sul suo stemma di famiglia: «Salus Vienna Tua», nonché donandogli tutto il caffè abbandonato dalle truppe ottomane. Kulczycki restò a Vienna, con il nome germanizzato di Franz Georg Kolschitzky, dove aprì nel 1684 la prima caffetteria viennese, fra le prime europee. Oggi la sua Bottega del caffè non esiste più, ma permane il suo nome al quale è intitolata la via che l'ospitava: 4. Kolschitzky-gasse, nonché una sua statua, posta sullo spigolo del palazzo d'angolo della strada stessa, che lo ritrae vestito da turco con una caffettiera in mano. F.J. Kulczycki, nato nel 1640, morì nel 1694. È ricordato come uno dei sicuri introduttori del caffè in Europa.
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RE RUGGERO I D'ALTAVILLA -
Ruggero I di Sicilia, citato spesso come il Gran Conte Ruggero (denominazione non contemporanea) (1034 – Mileto, 1101), figlio di Tancredi d'Altavilla e fratello di Roberto il Guiscardo della dinastia degli Altavilla, fu il conquistatore ed il primo Conte di Sicilia (1062).

L'ascesa dei Normanni e la conquista della Sicilia [modifica]
Ruggero fu inizialmente vassallo del fratello Roberto, duca di Puglia e di Calabria, e stabilì la propria corte a Mileto, in Calabria. Proprio a Mileto, nel Natale del 1061, sposò la normanna Giuditta d’Évreux.

Dalla Calabria, Ruggero, insieme al fratello Roberto, pianificò la conquista della Sicilia, allora in mano ai musulmani.

Trovarono il pretesto per l'invasione nella richiesta d'aiuto da parte dell'emiro di Catania, allora in lotta con l'emiro di Girgenti. Così, nel febbraio del 1061, Ruggero sbarca a Messina e da lì i Normanni avanzarono quasi indisturbati sino Castrogiovanni (oggi Enna) e Girgenti (oggi Agrigento), riuscendo ad occupare stabilmente la parte dell'isola orientale che maggiormente era rimasta legata alla cristianità.

La vera spedizione fu però quella che iniziò nel successivo 1062.

Il primo duro scontro avvenne a Cerami, vicino a Troina dove i normanni di Ruggero, stabilirono la prima capitale dell'isola. La conquista quindi rallentò: i normanni ebbero difficoltà nel ricevere rinforzi dagli alleati, Pisani e Genovesi in particolare, mentre dal nord Africa affluivano rinforzi per gli arabi. Così solo nell'agosto del 1071 Ruggero giunse alle porte di Palermo, che assediò per quasi sei mesi.

Successivamente vennero prese Castrogiovanni e Butera. La conquista della Sicilia verrà ultimata solo nel 1091 con la presa di Noto, trenta anni dopo l'inizio dell'impresa. Ruggero conquistò anche le isole di Pantelleria e Malta.

La politica [modifica]
Ruggero oltre che abile condottiero, fu anche un fine diplomatico; appoggiò il papato e così riuscì a farsi nominare Gran Conte di Sicilia. Inoltre, riuscì a gettare le basi per un'organizzazione dello stato meno basata sui signori feudatari, ma su di una classe di burocrati formati da funzionari pubblici non legati all'aristocrazia e dove comunque la sua figura era quella che deteneva il potere assoluto.

Come sovrano cattolico fu fondatore di una serie di splendide cattedrali in Sicilia: a Troina, a Paternò, a Modica, a Catania ed a Messina fra tutte.

Durante il suo governo ebbe inizio l'attuazione di una seria politica di ripopolamento in ampie zone dell'isola, con un copioso afflusso di genti provenienti dal Piemonte, allora chiamato Langobardia, soprattutto dal Monferrato, ed in misura minore di origine franco-provenzale e inglese. Le popolazioni della parte settentrionale e centrale della Sicilia che oggi parlano il cosidetto idioma gallo-italico, fra cui San Piero Patti, San Fratello, Novara di Sicilia, Randazzo, Aidone, Piazza Armerina, Caltagirone, Nicosia tanto simile alla lingua piemontese e così diverso rispetto al siciliano discendono tuttavia dalle migrazioni provocate dalle repressioni attuate da Guglielmo il Malo contro queste città ribelli e dal loro ripopolamento con genti provenienti sempre dalla Langobardia.
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RE RUGGERO I (parte seconda)
Affermata la loro supremazia nel meridione d'Italia, i fratelli Altavilla sbarcano in Sicilia chiamati dall' emiro di Catania, impegnato in una sanguinosa guerra con il califfo di Girgenti. L'aiuto all'emiro di Catania è solo un pretesto per iniziare la conquista della Sicilia ed essere nel contempo, considerati i "liberatori" delle residue popolazioni cristiane ancora presenti nell'isola dopo due secoli e mezzo di dominio musulmano. Nel febbraio del 1061 Ruggero organizza uno sbarco a Messina con poco più di un migliaio di soldati. Messina cade senza opporre resistenza per cui i Normanni arrivano facilmente fino a Castrogiovanni e Girgenti. Questo è solo l'inizio, perché la spedizione vera e propria viene organizzata nella primavera del 1062, quando Ruggero, con truppe fresche torna in Sicilia con l'intento di occupare l'intera isola. Gli anni della conquista sono duri. Un feroce scontro avviene a Cerami, a ovest di Troina. Il Malaterra riporta che le forze normanne erano esigue. Né il papato, né Pisa, né Genova, che tanto vantaggio trarranno dalle conquiste normanne, forniscono aiuti. Ma Ruggero riesce egualmente a mettere in fuga i nemici. I normanni controllano ormai una vasta zona, da Messina a Troina, dove Ruggero pone la sua capitale isolana. Con una serie di faticose battaglie che vedono cadere una ad una le più importanti città, nonostante i rinforzi arabi arrivati dall'Africa, nell'agosto del 1071 giunge alle porte di Palermo.

L'assedio dura fino al gennaio del 1072, quando Ruggero con l'aiuto del Guiscardo riesce a penetrare nella città fortificata e la capitale cade. Una messa solenne viene celebrata nell'antico Duomo, che per 240 anni era stato una moschea. A poco a poco cadono anche Castrogiovanni, Butera ed infine, nel 1091, Noto. Occorreranno trenta anni a Ruggero per conquistare l'intera Sicilia e le isole di Malta e Pantelleria, il cui possesso renderà sicuri i traffici nel canale di Sicilia e consentirà di avviare scambi commerciali con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
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RE RUGGERO I D'ALTAVILLA (parte terza)
Ci si può documentare ulteriormente su questo sito sia su Re Ruggero che sulla battaglia di Cerami.


cronologia.leonardo.it/storia/aa1040b.htm
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CARLO MARTELLO a POITIERS -
Poitiers (25 ottobre 732)

Nell'ottobre del 732 l'esercito musulmano guidato da Abdulrahman, governatore di al-Andalus, si trovava tra Poitiers e Tours.

Sabato 17 ottobre giunse l'esercito dei Franchi guidato da Carlo Martello, maestro di palazzo di Austrasia e Neustria. Oddone, duca di Aquitania, era al suo fianco.

L'esercito cristiano prese possesso della strada che collega Chatellerault a Poitiers. A 20 chilometri a nord di Poitiers, nei pressi di Moussais-la-Bataille, i due eserciti si incontrarono.

Per sette giorni gli avversari si studiarono.

Il 25 ottobre, primo giorno del mese di ramadan avvenne lo scontro decisivo.

I Franchi, pesantemente armati, serrarono le loro fila. Un muro di ferro, irto di punte, venne innalzato nella pianura. La cavalleria pesante di Oddone si schierò a protezione dei fianchi della fanteria.

I cavalieri saraceni montavano veloci cavalli arabi.

Abdulrahman diede il segnale di attacco. Al grido di Allah Akbar, migliaia di cavalieri si gettarono sulla fanteria franca. I cristiani rimasero immobili al loro posto. Inutilmente la cavalleria saracena reiterò i suoi attacchi. I Franchi non cedettero.

Oddone, per alleggerire la pressione sulla fanteria, organizzò con i suoi cavalieri un attacco diversivo.

Verso le quattro del pomeriggio i musulmani sentirono le grida che provenivano dal loro accampamento e dalla retroguardia. Oddone aveva aggirato il campo di battaglia e aveva iniziato l'attacco nelle retrovie degli Arabi e dei Berberi.

Nelle file saracene fu lo scompiglio perché molti abbandonarono le loro posizioni per accorrere a difendere l'accampamento.

Allora Carlo Martello ordinò l'attacco. Il muro di ferro avanzò compatto, irresistibile, tutto travolgendo.

Solo la notte pose fine all'avanzata di Carlo.

Al mattino i Franchi penetrarono nell'accampamento deserto. I saraceni sopravvissuti durante la notte erano fuggiti.

Abdulrahman era morto in battaglia.

Secondo gli islamici la sconfitta è da addebitare a tre fattori: la forte componente berbera e non araba delle milizie (solo gli ufficiali erano arabi), la presenza delle famiglie dei soldati, la grande distanza da Pamplona, base logistica della spedizione militare.

Sempre secondo gli islamici il crollo del fronte arabo-berbero fu dovuto all'attacco che il duca d'Aquitania condusse contro l'accampamento musulmano. Infatti molti soldati avrebbero abbandonato il posto di combattimento per andare a salvare i propri cari.

Secondo i cristiani invece gli islamici abbandonarono il campo di battaglia quando videro in pericolo le ricchezze che avevano razziato e che erano raccolte nell'accampamento.



Conseguenze di Poitiers

La sconfitta non valse a far terminare gli attacchi dei musulmani in Francia né in altre parti di Europa, ma interruppe l'ininterrotta avanzata che questi avevano intrapreso un secolo prima nelle terre cristiane.

La vittoria di Poitiers va posta accanto alle vittorie degli imperatori bizantini Costantino IV nel 678 e Leone III nel 718 a Costantinopoli.

Se i musulmani avessero vinto a Poitiers e avessero raggiunto Parigi distruggendo il regno dei Franchi, come avevano distrutto il regno dei Visigoti in Spagna, l'Europa avrebbe cessato di esistere. La Germania e l'Italia, divise in vari Stati, non avrebbero avuto alcuna possibilità di fermare l'ondata musulmana. Le armate islamiche avrebbero facilmente raggiunto Costantinopoli attraverso i Balcani e avrebbero distrutto l'Impero Bizantino.



Nuovo attacco dei musulmani (735)

Nel 735 i musulmani effettuarono un altro attacco contro la Francia. Entrarono nella valle del Rodano. Conquistarono Avignone e Arles. Attaccarono la Borgogna.

AN. DCCXXXVI. Denuo rebellante gente validissima Ismahelitarum, quos modo Sarracenos vocabulo corrupto nuncupant, irrumpentesque Rhodanum fluvium, insidiantibus infidelibus hominibus sub dolo et fraude Mauronto quodam cum sociis suis, Avenionem urbem munitissimam ac montuosam, ipsi Sarraceni, collecto hostili agmine, ingrediuntur; illisque rebellantibus ea regio vastata. Fredegarii scholastici chronicum cum suis continuatoribus, sive appendix ad sancti Gregorii episcopi turonensis historiam francorum, An. DCCXXXVI

Nel 737 Carlo Martello intraprese la campagna di liberazione del sud della Francia. Dopo un assalto impetuoso Avignone ritornò cristiana.

AN. DCCXXXVII. At contra vir egregius Carolus dux germanum suum, virum industrium, Childebrandum ducem, cum reliquis ducibus et comitibus, illis partibus cum apparatu hostili dirigit; quique praepropere ad eamdem urbem pervenientes tentoria instruunt. Undique ipsum oppidum et suburbana praeoccupant, munitissimam civitatem obsident, aciem instruunt, donec insecutus vir belligerator Carolus praedictam urbem aggreditur, muros circumdat, castra ponit, obsidionem coacervat, in modum Hiericho cum strepitu hostium et sonitu tubarum, cum machinis et restium funibus super muros et aedium moenia irruunt, urbem munitissimam ingredientes succendunt, hostes inimicos suos capiunt, interficientes trucidant atque prosternunt, et in suam ditionem efficaciter restituunt. Fredegarii scholastici chronicum cum suis continuatoribus, sive appendix ad sancti Gregorii episcopi turonensis historiam francorum, An. DCCXXXVII

La battaglia de la Berre (737)

Poi Carlo Martello si diresse a Narbona, da 18 anni in mano agli arabi e ai berberi. Narbona è su di un fiume in prossimità del mare. Carlo costruì delle torri di guardia e pose l'assedio.

Il governatore di al-Andalus decise di mandare rinforzi al comando di Omar ibn Khaleb. La cavalleria araba attraversò i Pirenei. I soldati vennero imbarcati su delle navi.

Lo sbarco a Narbona venne impedito dalle opere apprestate da Carlo che bloccavano l'accesso al porto. I musulmani decisero di sbarcare sulle spiagge in prossimità del fiume Berre per poi raggiungere via terra Narbona.

Carlo lasciò una parte dei suoi uomini ad assediare Narbona e con gli altri si avviò per un cammino nascosto verso il fiume Berre. Colse di sorpresa gli islamici mentre sbarcavano. Fu una strage. I sopravvissuti tentarono di raggiungere a nuoto le navi da cui erano arrivati. Vennero inseguiti dai Franchi saliti a bordo di alcuni navigli.

Carlo Martello inseguì i musulmani ovunque si rifugiassero. Liberò Nîmes, Agde, Béziers. Ma non riuscì ad entrare in Narbona, che rimarrà prigioniera degli islamici ancora per 22 anni.

AN. DCCXXXVII. ... Victor igitur atque bellator insignis intrepidus Carolus Rhodanum fluvium cum exercitu suo transiit, Gotthorum fines penetravit, usque Narbonensem Galliam peraccessit, ipsam urbem celeberrimam, atque metropolim eorum obsedit: super Adice fluvio munitionem in gyrum in modum arietum instruxit, regem Sarracenorum, nomine Athima, cum satellitibus suis ibidem reclusit, castraque metatus est undique. Haec audientes majores natu et principes Sarracenorum, qui commorabantur eo tempore in regione Hispaniarum, coadunato exercitu hostium cum alio rege, Amor nomine, machinis adversus Carolum viriliter armati consurgunt, praeparantur ad praelium: contra quos praefatus dux Carolus triumphator occurrit, super fluvio Birra, et valle Corbaria Palatio; illisque mutuo confligentibus, Sarraceni devicti atque prostrati, cernentes regem eorum interfectum, in fugam lapsi terga verterunt. Qui evaserant cupientes navali evectione evadere, in stagno maris natantes, namque sibimet mutuo conatu insiliunt. Mox Franci cum navibus et jaculis armatoriis super eos insiliunt, suffocantesque in aquis interimunt. Sicque Franci triumphantes de hostibus praedam magnam et spolia capiunt; capta multitudine captivorum, cum duce victore regionem Gotthicam depopulantur : urbes famosissimas Nemausum, Agatem, ac Biterris funditus muros et moenia Carolus destruens, igne supposito, concremavit; suburbana et castra illius regionis vastavit. Devicto adversariorum agmine, Christo in omnibus praesule, et capite salutis victoriae, salubriter remeavit in regionem suam, in terram Francorum ad solium principatus sui. Fredegarii scholastici chronicum cum suis continuatoribus, sive appendix ad sancti Gregorii episcopi turonensis historiam francorum, An. DCCXXXVII


La battaglia sul fiume Berre fu una seconda Poitiers, come afferma Eginardo.

Nam pater eius Karolus, qui tyrannos per totam Franciam dominatum sibi vindicantes oppressit et Sarracenos Galliam occupare temptantes duobus magnis proeliis, uno in Aquitania apud Pictavium civitatem, altero iuxta Narbonam apud Birram fluvium, ita devicit, ut in Hispaniam eos redire conpelleret, eundem magistratum a patre Pippino sibi dimissum egregie administravit. Einhardi Vita Karoli Magni, 2



Pipino il Breve, re di Francia

Carlo morì il 22 ottobre 741 a Quierzy-sur-Oise, nell'Aisne in Francia.

Lasciò il regno ai figli Carlomanno e Pipino il Breve, che nel 751 diverrà il primo re di Francia della dinastia carolingia.

A partire dal 752 Pipino combatterà i musulmani della Settimania e riuscirà a liberare Narbona nel 759 dopo circa quarant'anni di dominazione islamica.





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RODRIGO DIAZ di BIVAR
Rodrigo Díaz conte di Bivar (Quintanilla Vivar, 1043 – Valencia, 1099) è stato un militare spagnolo, meglio conosciuto come El Cid Campeador o Mio Cid (dall'arabo volgare ﻲ سيد sidi, mio signore; Campeador invece è la forma spagnola del cognome latino Campi Doctor che significa "campione", vincitore nel combattimento giudiziario o duello) fu un nobile castigliano, mercenario e una figura leggendaria della Reconquista spagnola. Fu signore di Valencia dal 1093 alla sua morte..

Era figlio di Diego Laínez (figlio di Laín Núñez, stimato alla corte del re di Castiglia, Ferdinando I che secondo la leggenda discendeva da Laín Calvo, uno dei mitici Giudici di Castiglia) e di Teresa Rodriguez, figlia di Rodrigo Álvarez, primo conte di Asturia e suo governatore.

Da quando rimase orfano di padre, crebbe nella corte del re Fernando I di Castiglia insieme al figlio, il principe futuro Sancho II di Castiglia.

Venne investito come cavaliere verso il 1060, nella chiesa di Santiago de los Caballeros (Zamora) da Doña Urraca futura signora di Zamora. Tra gli anni 1063 e 1072 fu il braccio destro di don Sancho e combatté con lui in numerose battaglie. Venne nominato Alfiere Reale (colui che portava lo stendardo del re in tutte le manifestazioni pubbliche) quando Sancho salì al trono della Castiglia nel 1065.

Nel 1063, secondo la leggenda, ottenne il titolo di Campeador quando, per risolvere una disputa a causa di alcuni castelli di frontiera, vinse il duello con Jimeno Garcés, l'alfiere del re d'Aragona, Ramiro I, che aveva posto l'assedio alla città di Graus, dell'emiro di Saragozza, al-Muqtadir, alleato del re di Castiglia, Fernando I, durante quell'assedio, l'8 di maggio, Ramiro I perse la vita.

Come capo delle truppe reali, il Cid accompagnò il re di Castiglia, Sancho II nella guerra che combatté contro il regno di Navarra, detta guerra dei tre Sanchi (Sancho II contro il re di Navarra, Sancho IV ed il suo alleato il re d'Aragona, il successore di ramiro I, Sancho I) che terminò, nel 1068 con la parziale riconquista dei territori castigliani ceduti da Ferdinando I al fratello Garcia III Sanchez di Navarra.

Poi fu al fianco del re nella guerra che Sancho II fece contro i fratello Alfonso VI, re del León e García, re di Galizia, scoppiata a causa della divisione dell'eredità del padre Fernando. Alfonso venne sconfitto nella battaglia di Llantada, una piana asturiana vicina al paese di Bimenes (1068); poi trovato un accordo Sancho ed Alfonso attaccarono Garcia e lo privarono del suo regno obbligandolo ad andare in esilio a Siviglia, presso il suo tributario al-Mutamid; ripresa la lotta con Alfonso, nella battaglia di Golpejera, nelle vicinanze di Golpejas (1072), lo sconfissero, catturarono ed imprigionarono a Burgos, da dove fuggì e riparò, in esilio, nel regno moro di Toledo, suo tributario. Sancho II occupò allora il León, riunendo così nuovamente il regno che era stato di suo padre.

I nobili del León non accettarono il fatto compiuto e si strinsero attorno alle sorelle del re, sopratutto a Doña Urraca, che si fortificò nella sua signoria, la città di Zamora. Sancho II dapprima espugno la signoria di Toro, della sorella Elvira e poi pose l'assedio a Zamora il 4 marzo del 1072; durante l'assedio, pare che un nobile di León ,il zamorano Bellido Dolfos, forse amante di Urraca, fingendosi disertore, lo invitò a seguirlo per fargli vedere il punto debole delle mura, lo separò dalla sua guardia e lo assassinò, il 6 ottobre del 1072. Dopo la morte di Sancho II, il Cid ed i castigliani continuarono l'assedio di Zamora; Alfonso VI era tornato in León e dato che il fratello non aveva lasciato eredi, si prodigò a garantire che se riconosciuto re di Castiglia avrebbe trattato i nobili castigliani alla stregua dei nobili leonesi; ma il sospetto che Urraca e Alfonso fossero complici nell'assassinio di Sancho era condiviso da buona parte della nobiltà castigliana, incluso il Cid. Alla fine i maggiorenti castigliani, tra cui il Cid Campeador, dopo aver tolto l’assedio a Zamora, pretesero che Alfonso VI giurasse la sua innocenza in pubblico, sul sagrato della chiesa di Santa Gadea (dedicata a Sant'Agata) di Burgos; solo allora Alfonso VI fu riconosciuto re di Castiglia dai nobili castigliani. Così Alfonso divenne il sovrano di León e Castiglia. Essendo il Cid Alfiere Reale ed esperto nel diritto castigliano, giurò davanti al nuovo re nella Chiesa di Santa Gadea. Altre interpretazioni semplicemente considerano il doppio giuramento come un giuramento sul codice dei diritti (Fuero juzgo) della Castiglia.


Pagina del Cantar de Mio CidCon il nuovo re, l'incarico di Alfiere Reale passò a García Ordóñez, conte di Nájera. Per alcuni anni il Cid fu tenuto in gran conto alla corte di Alfonso, che infatti, nel luglio del 1074, concesse al Cid la mano di sua cugina, doña Jimena, figlia del conte di Oviedo e delle Asturie Diego Fernández e della contessa Cristina Fernández.

Nel 1079, il Cid venne incaricato dal re di riscuotere le parias (tributi) dal re di Siviglia, al-Mutamid che allora era in guerra col re del Regno di Granada alleato di García Ordóñez. Rodrigo si schierò con al-Mutamid, alleato del re Alfonso e riuscì, nella battaglia di Cabra, a battere il re di Granada e a catturare García Ordóñez. Essendo, in seguito, stato coinvolto in fatto d'armi contro il re di Toledo, alleato del regno del León; tornando a corte, fu messo in cattiva luce agli occhi del re Alfonso, da García Ordóñez e da Pedro Ansúrez, potenti nobili alla corte di León, che convinsero il re a punirlo con l'esilio (1081).

Accompagnato dai suoi fedeli (secondo la leggenda tra coloro che lo seguirono vi era anche il suo luogotenente, Álvar Fáñez, ma non fu così, perché il Fáñez, durante l'esilio del Cid fu tra i capitani dell'esercito leonese-castigliano), il Cid Campeador offrì i suoi servizi prima ai conti di Barcellona Ramón Berenguer II e Berenguer Ramón II, ma, di fronte al loro rifiuto, decise di mettersi al servizio di al-Muqtadir, re di Saragozza, che era tributario del regno di Castiglia. Nella battaglia di Almenar sconfisse Berenguer Ramón II (1082) e vicino a Morella sconfisse anche il re d'Aragona Sancho Ramírez e al-Mundir, fratello di al-Muqtadir e sovrano di Lérida, Tortosa e Denia, nel 1084.

L'invasione degli almoravidi e la conseguente sconfitta di Alfonso nella Battaglia di al-Zallaqa (1086) fecero sì che il re si riavvicinasse al suo vassallo, il quale fu incaricato di difendere la zona levantina. Tra il 1087 e il 1089 il Cid rese tributari i regni musulmani di Taifa di Albarracín e di Alpuente e impedì che la città di Valencia, governata dal re al-Qadir, alleato dei castigliani, cadesse nelle mani di al-Mundir e del conte di Barcellona Berenguer Ramón II. Nell'anno 1089 le maldicenze dei suoi nemici a corte ripresero fiato e dopo che era arrivato tardi con le sue truppe alla difesa del castello Aledo, in Murcia, nel 1090, si scontrò di nuovo con Alfonso e questi lo condannò all'esilio per la seconda volta, senza concedergli un regolare processo, dopo avergli confiscato tutti i beni e imprigionato la moglie e le figlie. Il Cid partì dopo aver liberato e preso con sé moglie e figlie.

Il Cid ritornò al servizio del re di Saragozza e sconfisse un'altra volta il re di Lerida, facendo prigioniero il suo alleato il conte di Barcellona, Berenguer Ramón II a Tévar, vicino a Murcia (1090), rimettendolo subito in libertà nacque un'amicizia sincera che portò, nel 1103, al matrimonio tra il nipote del conte, Raimondo Berengario III e la figlia di Rodrigo, Maria, ed inoltre concesse al Cid il protettorato di tutte le province musulmane a sudovest della Catalogna, praticamente i regni di Saragozza e Lerida, che continuarono ad esistere solo formalmente.

Nel frattempo al-Qadir, re di Valencia, per volere di Alfonso VI, dopo la partenza dei soldati castigliani, si era alleato al re di Saragozza, per cui il Cid si recò immediatamente a Valenza, con truppe miste, cristiane e musulmane, divenendo il protettore di al-Qadir.

Nel 1092, Rodrigo partecipò ad una spedizione castigliana contro gli Almoravidi di Andalusia, con la speranza di ottenere il perdono del re Alfonso; ma quest'ultimo non si lasciò commuovere. Il Cid allora si vendicò attaccando e saccheggiando il distretto castigliano della Rioja e e quando arrivò a Nájera, sfidò a duello il suo nemico, García Ordóñez, che non raccolse la provocazione.

Nel luglio del 1093, dopo la morte del suo protetto (al-Qadir era stato ucciso durante una sollevazione a favore degli almoravidi), assediò Valencia, e approfittando del conflitto interno tra i sostenitori e i contrari agli almoravidi, riuscì ad occuparla, e, nel 1094, a liberarla dai filo-almoravidi; la città divenne così un baluardo cristiano contro gli attacchi del sovrano degli Almoravidi, Yūsuf ibn Tāshfīn, che dopo l'eventuale conquista di Valencia avrebbe potuto attaccare la contea di Barcellona ed il regno di Aragona.

In quello stesso periodo il Cid affrontò in battaglia gli Almoravidi che subirono per opera sua, alla battaglia di Cuarte del 1094, la loro prima grande sconfitta nella penisola iberica.

Dopo essere divenuto signore di Valencia, il Cid rinforzò le difese della città e ,non solo mantenne la difensiva ma passò anche al contrattacco per migliorare le proprie posizioni strategiche; nel 1096, si alleò col nuovo re d'Aragona, Pietro I di Aragona, figlio del suo avversario di tante battaglie, Sancho Ramirez; Pietro I, dopo aver occupato Huesca, richiese l'alleanza di Rodrigo, con il proposito di fermare insieme l'avanzata almoravide; cosa che avvenne alla battaglia di Bairén, del 1097. Nel 1098, Rodrigo occupò Murviedro (l'antica Sagunto) e Almenara e rese suoi tributari i piccoli regni musulmani dei distretti vicini.

Rafforzò le alleanze militari con dei matrimoni: infatti una figlia del Cid, María, di dieci anni, nel 1190, fu promessa in sposa al futuro conte di Barcellona, che allora aveva otto anni, e l'altra sua figlia, Cristina, nel 1087, sposò il giovane Ramiro di Navarra, e da questa unione sarebbe nato il futuro re di Navarra, Garcia Ramirez IV; l'unico figlio maschio del Cid, Diego Rodríguez, nel 1097, lasciò Valencia per unirsi alle truppe castigliane, che combattevano gli Almoravidi nelle vicinanze di Toledo e morì nella battaglia di Consuegra, dove il re Alfonso venne sconfitto.

Il Cid morì nel 1099, adorato dai suoi soldati ed ammirato da tutta la Spagna, inclusi i suoi nemici che lo temevano ma lo rispettavano.

Il Cid poté rientrare in patria solo dopo morto. La moglie Jimena, dopo aver resistito per tre anni ai continui attacchi del figlio dell'emiro Yūsuf ibn Tāshfīn, ʿAlī b. Yūsuf, chiese aiuto al cugino, Alfonso VI, che, raggiunta Valencia col proprio esercito, ritenne la città indifendibile, anche perché nel frattempo gli almoravidi avevano attaccato la Castiglia e nel 1102 abbandonò la città, dopo averla data alle fiamme. Jimena ed i suoi soldati seguirono Alfonso trasportando il corpo di Rodrigo, che venne tumulato a Burgos, nella chiesa di San Pietro di Cardeña. Durante la Guerra d'indipendenza spagnola (1808-1814), i soldati francesi profanarono la sua tomba. I suoi resti furono recuperati e, nel 1842, traslati nella capella della Casa Concistoriale di Burgos. Dal 1921 riposano uniti ai resti di sua moglie, doña Jimena, nella Cattedrale di Burgos.

Il Cantar de Mio Cid [modifica]

Riproduzione della prima pagina del manoscritto del Cantar de mio Cid conservato nella Biblioteca Nacional de EspañaGrande capitano e politico sagace, le sue gesta vennero cantate nel poema Cantar de Mio Cid (XII secolo), e la sua figura acquisisce un profilo leggendario nei romanzi, incarnando le qualità ideali dell'anima castigliana.

Film [modifica]
Nel 1961 fu girato un film di 184 minuti, ispirato alla vita del Cid, una coproduzione Italo-spagnola, con un cast internazionale:

El Cid
Regia di Anthony Mann. Con Sophia Loren (Doña Jimena de Gormaz), Charlton Heston (Rodrigo Diaz de Bivar, El Cid), Raf Vallone (Il conte García Ordóñez), Nerio Bernardi, Massimo Serato, Carlo Giustini, Tullio Carminati, Paul Müller, Franco Fantasia, Geneviève Page (La principessa Urraca), Fausto Tozzi, Ralph Truman (il re di León e Castiglia Ferdinando I), John Fraser (Il principe Alfonso poi re di León ed in seguito re di León e Castiglia), Herbert Lom, Rosalba Neri, Gérard Tichy (Re Ramiro di Aragona), Michael Hordern, Gary Raymond (Il principe Sancho poi re di Castiglia), Hurd Hatfield, Douglas Wilmer, Frank Thring.

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RODRIGO DIAZ di BIVAR (parte seconda) -
LA BATTAGLIA DI LAS NAVAS DE TOLOSA (1212)

La battaglia di Las Navas de Tolosa, ovvero la battaglia di al-‘Iqāb in arabo:معركة العقاب, Ma‘rakat al-‘Iqāb , è la battaglia finale tra spagnoli e l'esercito almohade berbero-arabo, con aliquote non indifferenti di Turchi, Turkmeni e Curdi, che fu battuto dalle forze riunite dei cristiani della Penisola iberica.

Nel 1212 Navarra, Catalogna, Aragona, Castiglia, Austichi uniscono le forze vincendo la battaglia che porterà alla nascita della Spagna e del Portogallo dopo il matrimonio di Ferdinando II di Aragona e Isabella di Castiglia nel 1469: anno in cui gli spagnoli - con una forte autoreferenzialità - considerano sia finito il Medioevo.

Lo scontro costituì la rivincita della clamorosa sconfitta patita dai cristiani spagnoli 17 anni prima nella battaglia di Alarcos/al-Arak del 19 luglio 1195 ad opera del terzo sovrano almohade Ya‘qūb al-Mansūr. Prodromo indispensabile della vittoria fu il superamento delle endemiche contrapposizioni fra i sovrani cristiani spagnoli e fu infatti quando un accordo legò solidalmente tra loro il re di Navarra Sancho VIII il Forte e Pietro II d'Aragona che le basi della vittoria si poterono dire alfine gettate, malgrado all'accordo restasse inizialmente estraneo Alfonso IX di León. All'alleanza garantirono la loro partecipazione anche Alfonso II del Portogallo e i cavalieri Álvaro Núñez de Lara, Diego López de Haro e Lope Díaz, mentre papa Innocenzo III garantiva all'impresa lo status di Crociata. All'alleanza presero parte anche Franchi, con alcuni vescovi, e l'Ordine dei Templari.

Gli Almohadi erano, dopo la morte di Ya‘qūb al-Mansūr il 22 gennaio 1199, in preda a una crisi dinastica, visto che nuovo Califfo divenne il diciassettenne figlio del defunto, il vanesio Muhammad al-Nasir, attorniato dai suoi zii abbastanza incompetenti.

La battaglia fu preceduta da incursioni lanciate da Alfonso VIII di Castiglia nelle provincie di [[Murcia] e Jaén e il giovane califfo accettò lo scontro che invece gli sconsigliava il capace suo governatore d'Ifriqiya, ‘Abd al-Wāhid b. Abī Hafs (eponimo dei futuri Hafsidi).

I sovrani cristiani di Castiglia, Navarra e Aragona presero nel giugno 1212 Calatrava, il cui governatore fu giustiziato poco più tardi da Muhammad al-Nāsir cui egli aveva voluto portare la notizia. Ciò provocò l'astensione dai futuri combattimenti della maggior parte dei musulmani di al-Andalus, che trovarono ingiustificata e insensata tale condanna.

Gli Almohadi replicarono assediando la fortezza di Salvatierra (base dell'ordine di Calatrava]], conquistandola, per poi proseguire su quelo che sarebbe stato di lì a poco il teatro della battaglia.

Al corpo centrale almohade facevano da ali i volontari (mutawwa‘a ) sulla sinistra e gli andalusi comunque rimasti nell'esercito islamico sulla destra.

Quando l'attacco cristiano iniziò, l'ala sinistra dei volontari respinse i contingenti cristiani che si contrapponevano loro mentre la cavalleria cristiana metteva del tutto sorprendentemente in fuga gli andalusi, che quasi non combatterono.


Armi di NavarraL'urto maggiore si ebbe dunque al centro mentre lentamente anche l'ala sinistra cominciava a cedere alla pressione cristiana. Lo sfondamento fu inevitabile e il califfo sfuggì a stento alla morte, rifugiandosi a Baeza, nel momento in cui sulla sua guardia personale piombò Álvaro Núñez de Lara.

Si dice che la tenda del Califfo fosse stata circondata da catene, poste a sua difesa. L'averla violata (malgrado la fuga di Muhammad al-Nāsir) inorgoglì a tal punto la Casa di Navarra da indurla a cambiare le proprie armi, raffigurandovi su campo rosso catene dorate con, al centro, un verde smeraldo, lì dove sorgeva la tenda califfale poi presa.
La vittoria cristiana fu totale e le perdite musulmane gigantesche. Fra i vincitori i più importanti caduti furono Pedro Arias (Gran Maestro dell'Ordine di Santiago, morto per le ferite il 3 agosto) e Gomez Ramirez (Gran Maestro dell'Ordine del Tempio) e Ruy Diaz (Gran Maestro dell'Ordine di Calatrava) Di lì a poco, a Marrakesh, il califfo moriva il 13 dicembre 1213.
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MARCO D'AVIANO -
Marco d'Aviano (al secolo Carlo Domenico Cristofori) (Aviano, 17 novembre 1631 – Vienna, 13 agosto 1699) è stato un religioso e predicatore italiano, oggi venerato come beato dalla Chiesa cattolica.

Marco D'Aviano (1631-1699)


Marco d'Aviano, predicatore cappuccino della Provincia Veneta, è una delle principali personalità religiose del secolo XVII: riconosciuto annunziatore di conversione e di perdono, animatore di una rinnovata pratica della vita cristiana, apostolo dell'atto di dolore perfetto, percorse le strade dell'Europa annunziando la parola di Dio e invitando gli uomini del suo tempo alla fede e alla penitenza, mentre il suo messaggio veniva garantito e rafforzato con il dono delle conversioni e delle guarigioni.

Nato ad Aviano il 17 novembre 1631 da Marco Pasquale Cristofori e Rosa Zanoni, appartenenti alla ricca borghesia del paese e dal cui matrimonio nacquero altri dieci figli, fu battezzato nello stesso giorno con il nome di Carlo Domenico. Ricevette nel suo paese di origine la prima formazione spirituale e culturale, che fu perfezionata negli anni 1643-1647 nel collegio dei gesuiti a Gorizia: qui il giovane Cristofori ebbe modo di ampliare le basi della sua cultura classica e scientifica, e di approfondire la sua vita di pietà, resa piú incisiva dalla appartenenza alle congregazioni mariane.

Il clima epico determinato dalla guerra di Candia, combattuta in quegli anni tra la Repubblica di Venezia e l'Impero Ottomano, ebbe un influsso decisivo nella vita del giovane avianese. Animato dal desiderio di raggiungere il luogo delle operazioni belliche, disposto a dare anche il suo sangue per la difesa della fede, lasciò il collegio di Gorizia e giunse giorni dopo a Capodistria, dove, stremato dalla fame e dalle fatiche del viaggio, bussò alla porta dei cappuccini. Dal superiore del convento, oltre a cibo e ricovero, ricevette anche il saggio consiglio di far ritorno a casa presso i suoi genitori.

Durante la breve permanenza presso i cappuccini di Capodistria, illuminato dalla grazia, l'avianese ebbe modo di intravedere la possibilità di seguire in modo diverso la sua vocazione all'apostolato e al martirio. Il tutto sfociò nella ferma decisione di abbandonare il mondo e di abbracciare l'austera vita cappuccina. Nel mese di settembre del 1648 fu ricevuto nel noviziato di Conegliano e un anno dopo, il 21 novembre 1649, emetteva i voti religiosi con il nome di Marco d'Aviano. Compì in seguito il corso regolare degli studi, fissato tra i cappuccini in un triennio di filosofia e un quadriennio di teologia, durante il quale, il 18 settembre 1655, fu ordinato sacerdote a Chioggia.

La sua vita fu caratterizzata da un forte impegno nella preghiera e nella vita comune, vissuta nell'umiltà e nel nascondimento e animata da zelo e osservanza della regola e delle costituzioni dell'Ordine. Dal settembre 1664, anno in cui ottenne la “patente di predicazione”, padre Marco profuse le sue migliori energie nell'apostolato della parola, annunziata in tutta Italia, soprattutto nei tempi forti della Quaresima e dell'Avvento. Non mancarono impegni di responsabilità e di governo: nel 1672 infatti fu eletto superiore del convento di Belluno, e nel 1674 fu chiamato a dirigere la fraternità di Oderzo.

L'evento che tolse la persona del frate avianese dall'umile nascondimento della cella conventuale e la impose all'attenzione universale si verificò l'8 settembre 1676: inviato a predicare nel monastero padovano di San Prosdocimo, tramite la sua preghiera e la sua benedizione fu istantaneamente guarita la monaca Vincenza Francesconi, ammalata e costretta a letto da circa 13 anni. Eventi straordinari simili si verificarono un mese dopo a Venezia, creando intorno alla sua persona un notevole afflusso di popolo e dando cosí un credito particolare alla sua attività apostolica.

Non turbato dalla fama, che sempre piú si diffondeva intorno a lui e che presto fece richiedere la sua presenza anche fuori d'Italia, il Servo di Dio continuava il suo ministero apostolico e specialmente l'attività della predicazione, sempre incisiva ed essenziale. In modo particolare esortava i suoi uditori all'incremento della vita di fede e della pratica cristiana, al pentimento dei propri peccati e alla necessità della penitenza: a tutti faceva recitare l'atto di dolore perfetto e impartiva in seguito la sua benedizione, sempre apportatrice di copiosi frutti spirituali e spesso anche di eventi prodigiosi e guarigioni straordinarie.

Furono proprio questi eventi taumaturgici a far richiedere ovunque la presenza del Servo di Dio e a fargli intraprendere negli ultimi venti anni della sua vita faticosi viaggi apostolici in tutta Europa. Questi venivano effettuati sempre dietro precetto obbedienziale dei superiori dell'Ordine o comandati direttamente dalla Santa Sede, che spesso concedeva anche la facoltà — soprattutto in seguito agli acciacchi dell'età — di poter usare convenienti mezzi di trasporto. Continuamente richiesto dai sovrani e governanti e dalle autorità pubbliche, veniva accolto con grande entusiasmo da numerosa folla, desiderosa di ascoltare la sua parola e ricevere la sua benedizione.

Tra gli autorevoli personaggi che richiesero insistentemente la sua presenza e gli offrirono la loro amicizia vanno annoverati il governatore del Tirolo Carlo V di Lorena e sua moglie Eleonora, il duca di Neuburg Filippo Guglielmo e suo figlio Giovanni Guglielmo, l'elettore di Baviera Massimiliano Emanuele e lo zio Massimiliano Filippo, la principessa di Vaudemont Anna Elisabetta, la delfina di Francia Maria Anna Cristina Vittoria, il re di Spagna Carlo II e la sua seconda moglie Marianna di Neuburg, e in modo particolare il re di Polonia Giovanni Sobieski, l'imperatore Leopoldo I e vari esponenti della corte imperiale. Mete dei suoi viaggi furono in questi anni la Germania, la Francia, il Belgio, l'Olanda, la Svizzera, la Boemia e l'Austria.

Con speciale evidenza vanno ricordate le relazioni tra padre Marco e l'imperatore Leopoldo I. Dal primo incontro, che ebbe luogo a Linz nel settembre 1680, fino alla morte, il Servo di Dio fu per Leopoldo amico, consigliere, padre spirituale e confidente in ogni occasione e per ogni problema, tanto di ordine familiare che politico, economico, militare e religioso. Tra i due esisteva in effetti una profonda complementarietà di carattere: l'insicuro e indeciso Leopoldo incontrò provvidenzialmente sulla sua strada la forte e decisa personalità di padre Marco che, oltre alla sincera amicizia, offrì al suo augusto contemporaneo coraggio, forza, decisione, sicurezza di giudizio e di azione, aiuto e direzione nelle necessità spirituali, confidenza e consiglio nei suoi problemi di coscienza e in tutti i suoi impegni di governo.

Proprio in base alle pressanti insistenze imperiali e agli ordini provenienti da Roma, Marco d'Aviano dovette recarsi alla corte imperiale, prevalentemente nei mesi estivi, ben quattordici volte, e partecipare attivamente alla crociata antiturca: ad essa il Servo di Dio prese parte in qualità di legato pontificio e di missionario apostolico. Fu suo grande merito l'aver contribuito in prima persona e in maniera determinante alla liberazione di Vienna dall'assedio turco il 12 settembre 1683. Dal 1683 al 1689 partecipò personalmente alle campagne militari di difesa e di liberazione: suo scopo era instaurare e favorire reciproche relazioni amichevoli all'interno dell'esercito imperiale, esortare tutti a una vera condotta cristiana e assistere spiritualmente i soldati. Non mancarono grandi successi militari, come la liberazione di Buda il 2 settembre 1686, e quella di Belgrado il 6 settembre 1688. Negli anni seguenti fu molto viva la sua azione per riportare la pace in Europa, soprattutto tra Francia e Impero, e nel promuovere l'unità delle potenze cattoliche in difesa della fede, sempre minacciata dalla potenza ottomana.

Nel maggio 1699 Marco d'Aviano intraprese il suo ultimo viaggio verso la capitale dell'Impero. La sua salute, già cagionevole, subí un progressivo peggioramento, tanto che dovette interrompere ogni attività. Il 2 agosto ricevette in convento la visita della famiglia imperiale e poi man mano quella dei piú illustri personaggi di Vienna. Il 12 dello stesso mese il Nunzio Apostolico Andrea Santa Croce portò personalmente la benedizione apostolica del Papa Innocenzo XII all'ammalato, che ricevette gli ultimi sacramenti e rinnovò la professione religiosa. Il 13 agosto 1699, assistito dal suo augusto amico l'imperatore Leopoldo e dall'imperatrice Eleonora, stringendo tra le mani il crocifisso, padre Marco spirava dolcemente. Per permettere alla numerosa popolazione, accorsa da ogni dove, di vedere e venerare per l'ultima volta le spoglie mortali del cappuccino avianese, l'imperatore ordinò che i funerali si celebrassero il giorno 17, e dispose infine che fosse seppellito nel cimitero dei frati, ma in una tomba a parte, non lontana dai sepolcri imperiali. Pensava già di promuoverne la causa di Beatificazione, e a questo proposito quattro anni dopo disponeva la traslazione dei resti mortali del frate di Aviano in una cappella della chiesa dei cappuccini di Vienna, ove tuttora riposano.

Se il messaggio di Marco d'Aviano, a livello personale, è costituito da un vigoroso invito, rivolto a ogni cristiano, a percorrere un costante itinerario di conversione e di fede, a livello più ampio esso richiama e sottolinea l'identità cristiana dell'Europa, che va salvaguardata e perseguita con l'apostolato e la preghiera: in questa prospettiva egli stesso si attribuiva l'appellativo, che fu il programma della sua vita ed è tuttora attuale, di “medico spirituale dell'Europa”.

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MARCO D'AVIANO (parte seconda)-
Padre Marco d'Aviano
Per una biografia completa, visitate il sito dedicato a Padre Marco.

Padre Marco, al secolo Carlo Domenico Cristofori, nacque ad Aviano (allora sotto la Repubblica di Venezia) nel 1631. Studiò presso i gesuiti in un collegio a Gorizia dal quale scappò, trovando rifugio presso i cappuccini di Capodistria. Giovanissimo divenne dunque frate cappuccino a Conegliano, poi si recò a Chioggia dove studiò e fu ordinato sacerdote; si diede all'apostolato della parola e della penna, divenendo presto famoso. Nel 1680 fu inviato in Germania dove divenne confidente e consigliere di molti principi, tra i quali l'imperatore Leopoldo I d'Austria che lo chiamava suo angelo tutelare. Fu al suo fianco nel 1683 come protagonista durante l'assedio di Vienna. Morì in quella città il 13 agosto del 1699, e fu sepolto nella chiesa dei cappuccini. La sua festa cade quindi il 13 agosto.

Padre Marco fu uno dei personaggi più importanti del suo tempo, da sempre famoso in Austria ma stranamente caduto nell'oblio proprio a casa sua. Ebbe un ruolo determinante, come cappellano generale, nella vittoriosa battaglia di Vienna dell'11 settembre 1683, definita da qualche storico "la madre di tutte le battaglie" perché ha chiuso il discorso militare con i turchi, desiderosi di occupare l'Europa, decretando il loro irreversibile declino militare ed economico. Non a caso la data dell'11 settembre 2001 fu stata scelta dai terroristi islamici per compiere l'attentato delle Torri Gemelle.

Carlo Sgorlon ha scritto un romanzo su di lui: "Marco d'Europa", ora riproposto col titolo "Il taumaturgo e l'imperatore". Il regista Renzo Martinelli (lo ricordiamo per il film "Vajont") ha in programma un film sulla vicenda di Marco d'Aviano. Su Marco d'Aviano ha detto:"Marco credeva fermamente alla necessità di affermare l'identità culturale dell'Occidente di fronte alla sfida dell'Islam". Ma il riconoscimento più alto al cappuccino di Aviano viene dalla Chiesa. Infatti, il 27 aprile 2003 Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato, riconoscendo in lui l'esercizio eroico delle virtù cristiane.

Riproduciamo qui di seguito uno scritto di p. Arsenio d'Ascoli, apparso nel suo volume "I papi e la Santa Casa" (Loreto, 1969, pp. 54ss), nel quale sono descritti gli aspetti "lauretani" della battaglia di Vienna e il ruolo di padre Marco d'Aviano.

Dopo un secolo dalla disfatta di Lepanto (1571) i turchi tentavano per terra di sommergere l'Europa e la cristianità. Maometto IV al principio del 1683 consegna a Kara Mustafà lo Stendardo di Maometto facendogli giurare di difenderlo fino alla morte. Il Gran Visir, orgoglioso della sua armata di 300 mila soldati, promette di abbattere Belgrado, Buda, Vienna, straripare in Italia, giungere fino a Roma e collocare sull'altare di S. Pietro il trogolo del suo cavallo.

Nell'agosto del 1683 il Cappuccino P. Marco d'Aviano è nominato Cappellano Capo di tutte le armate cristiane. Egli rianima il popolo atterrito, convince Giovanni Sobieski ad accorrere con la sua armata di 40 mila uomini.

L'immagine della Madonna è su ogni bandiera: Vienna aveva fiducia solo nel soccorso della Madonna. La città era assediata dal 14 luglio e la sua resa era questione di ore.

Sul Kahlemberg, montagna che protegge la città dalla parte del nord, in una cappella, il P. Marco celebrò la Messa servita dal Sobieski dinanzi a tutta l'armata cristiana disposta a semicerchio. P. Marco promise la più strepitosa vittoria. Alla fine della Messa, come estatico, invece di dire: "Ite Missa est", gridò: "Joannes vinces", cioè: "Giovanni vincerai".

La battaglia iniziò all'alba dell'11 settembre. Un sole splendido illuminava le due armate che stavano per decidere le sorti d'Europa. Le campane della città fin dal mattino suonavano a stormo, le donne e i bambini erano in chiesa a implorare aiuto da Maria. Prima di sera l'armata turca era in rotta, lo stendardo di Maometto nelle mani di Sobieski, la tenda del Gran Visir occupata.

Il popolo era impaziente di contemplare il volto dell'eroe. Sobieski, preceduto dal grande Stendardo di Maometto, vestito di azzurro e di oro, montato sul cavallo del Gran Visir, il giorno seguente fece il suo ingresso solenne in città fra un delirio di popolo. Per ordine di Sobieski il corteo si diresse verso la chiesa della Madonna di Loreto in cui si venerava una celebre immagine della SS. Vergine. A Lei era dovuta la vittoria e ai suoi piedi tutto il popolo si prostrò riconoscente.

Fu celebrata una S. Messa e Sobieski rimase sempre in ginocchio come assorto. Il predicatore salì il pulpito e fece un grande discorso di circostanza, applicando a Giovanni Sobieski il testo evangelico: "Fuit homo missus a Deo cui nomen erat Joannes" ("Ci fu un uomo inviato da Dio, il cui nome era Giovanni").

La cerimonia proseguì grandiosa e solenne nella sua semplicità con particolari gustosi che mettono in rilievo la fede e la bonomia di Sobieski. L'assedio aveva disorganizzato molte cose e la Chiesa di Loreto non aveva più cantori. "Non importa" disse Sobieski, e con la sua voce potente intonò ai piedi dell'altare il "Te Deum", che il popolo proseguì ad una sola voce.

L'organo e la musica non erano necessari: il coro della folla vi supplì con pietà, commozione, entusiasmo. Il clero sconcertato non sapeva come concludere, e sfogliava messali e rituali per cercare un versetto. Sobieski lo trasse d'imbarazzo: senza troppo badare alle rubriche, ne improvvisò uno e la sua voce sonora si innalzò ancora potente su la folla: "Non nobis, Domine, non nobis!" ("Non a noi, Signore, non a noi!"). I sacerdoti risposero piangendo: "Sed nomini tuo da gloriam" ("Ma al tuo nome dà gloria").

Sobieski inviò subito un messaggio al B. Innocenzo XI per annunziargli la vittoria. I termini della missiva mostrano l'umiltà e la fede dell'eroe: "Venimus, vidimus, et Deus vicit" ("Siamo venuti, abbiamo veduto, e Dio ha vinto").

Una solenne ambasciata portava al Papa il grande stendardo di Maometto IV, la tenda del Gran Visir e una bandiera cristiana riconquistata ai Turchi.

Il B. Innocenzo XI, riconoscente alla Madonna di Loreto per la grande vittoria, inviò al Santuario la bandiera ritolta ai Turchi e la tenda. La bandiera si conserva ancora nella Sala del Tesoro. La tenda fu portata personalmente da Clementina, figlia di Sobieski, sposa a Giacomo II Re d'Inghilterra. Con la tenda fu confezionato un prezioso baldacchino che si usa solo nelle grandi solennità; una parte servì per un "apparato in quarto per pontificali".

Anche il Papa, come Sobieski, attribuiva la vittoria alla Vergine. Il suo ex voto fu l'istituzione di una festa in onore del S. Nome di Maria. Il 25 novembre 1683 un atto della Congregazione dei Riti la estendeva a tutta la Chiesa e la fissava nella domenica fra l'ottava della Natività di Maria e S. Pio X l'ha fissata per il 12 settembre, giorno anniversario della vittoria.

Dopo la grande battaglia di Vienna, sotto le macerie fu trovata una bella immagine della Madonna di Loreto, nei cui lati era scritto: "In hac imagine Mariae victor eris Joannes; In hac imagine Mariae vinces Joannes" ("In questa immagine di Maria sarai vincitore, o Giovanni; in questa immagine di Maria vincerai, o Giovanni"). Era certo un'immagine portata lì da S. Giovanni da Capistrano, più di 2 secoli prima, nelle lotte contro i Turchi in Ungheria e a Belgrado.

Sobieski volle che P. Marco la portasse nell'ingresso trionfale a Vienna il giorno dopo la vittoria. La portò con sé inseguendo il nemico e con essa riportò splendide vittorie contro i Turchi. La fece poi collocare nella sua Cappella e ogni giorno faceva celebrare dinanzi a Lei la S. Messa e cantare le Litanie Lauretane.


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L'AMMIRAGLIO ANDREA DORIA e LA BATTAGLIA di LEPANTO -
La Battaglia di lepanto il ruolo di Giovanni Andrea Doria


La battaglia di Lepanto (1571) rappresenta l'evento bellico più noto a cui abbia partecipato il Principe Giovanni Andrea Doria ma costituisce anche un punto focale della storia europea sotto molteplici aspetti (politici, militari, religiosi e tecnologici).
Quadro storico europeo

Gli eserciti turchi dopo l'occupazione di Costantinopoli (1453) sembrano inarrestabili. Vengono soggiogate Serbia e Bosnia. In Albania Giorgio Castriota "Scanderbeg" resiste sino al 1468. Genova e Venezia perdono molte delle loro colonie orientali. Tra il 1512 ed il 1520 vengono conquistate Siria, Arabia e Egitto.

Tra il 1520 ed il 1560 con Solimano II "il magnifico" l'Impero Ottomano raggiunge il massimo splendore a spese delle nazioni europee e dei popoli confinanti.

Nel 1521 viene occupata Belgrado, nel 1522 è la volta di Rodi, nel 1526 si svolge la battaglia di Mohacs con conseguente avanzata in Ungheria.

Austria, Polonia e Venezia diventano la prima linea davanti agli ottomani.

Nel 1529 viene assediata Vienna, nel 1533 si procede alla spartizione dell'Ungheria ma anche nel vicino oriente i turchi non si arrestano conquistando Baghdad e la Mesopotamia.

Nel 1566 la fortezza di Seghedino cade in mani turche e nel 1568 gli Asburgo vengono costretti a pagare un tributo annuo.

Il fiorente Impero Ottomano affonda le radici nell'oppressione e nella violenza. Le innumerevoli guerre di conquista vengono alimentate con decine di migliaia di schiavi europei e africani che rinforzano le armate e alle popolazioni cristiane viene imposta la consegna di un bambino ogni cinque per costituire le truppe giannizzere.

Per ovviare la mancanza di classi amministrative, commerciali e industriali, vengono tollerate le popolazioni locali senza costrizione alla conversione ma sotto imposizione di obbedienza e tassazione.

Il 25 maggio 1571 per volontà del Pontefice viene costituita la Lega Santa a cui aderiscono: la Santa Sede, la Spagna, la Repubblica di Genova, la Repubblica di Venezia, l'Ordine di Malta, il Duca di Savoia ed altri stati italiani. La costituzione dell'alleanza tra nazioni e casate spesso in pessimi rapporti tra loro sottolinea la gravità del momento storico.

La Spagna fornisce il maggior contributo in termini finanziari, di navi e uomini nonostante i suoi interessi politici ed economici siano ormai rivolti verso le Americhe.

Sarebbe opportuno ricordare però che almeno fino alla metà del 1500 più del 50% delle disponibilità finanziarie spagnole erano frutto di prestiti forniti dai genovesi.

Ultimo evento bellico che prelude la battaglia di Lepanto è la conquista di Cipro (1571).

Tecnologie utilizzate

All'epoca, la principale nave da guerra nel Mediterraneo è la galea. Il vascello in questione, generalmente o quasi esclusivamente di uso militare e mediterraneo, rappresenta l'unità di base delle flotte. La propulsione mista vela e remi permette la navigazione anche in assenza di vento ma molto probabilmente le vele vengono utilizzate durante gli spostamenti e i remi quasi esclusivamente in battaglia o in manovra.

La galea ha solitamente uno scafo lungo, affusolato e leggero, due alberi con vele latine e potenzialmente è molto veloce soprattutto con la spinta a remi ma probabilmente per brevi periodi dettati dalla forza dei rematori.

L'artiglieria più pesante posizionata principalmente a prua e fissa, plausibilmente ne condiziona l'utilizzo solo nel moto in avanti rendendo necessario l'abbordaggio e l'uso di armi da fuoco minori nel confronto tra fiancate.

E' lecito pensare che dopo un primo scambio di "fuoco pesante", le galee si speronino alla ricerca dell'abbordaggio rendendo difficoltose successive manovre in conseguenza dei danni allo scafo e ai remi. La battaglia probabilmente prosege come in uno scontro terrestre tra avanzate e ritirate da un "legno" ad un altro. Si può ipotizzare che a conclusione di uno scontro, i vascelli impegnati, anche se vittoriosi, debbano ricorrere a notevoli riparazioni.

Il vascello più importante dello schieramento cristiano, è la galeazza veneziana. Al contrario della galea comune, questa è sovradimensionata, con ponte a coprire i banchi dei rematori, parzialmente "corazzata" e pesantemente armata non solo a prua e a poppa ma anche sulle fiancate. Le linee in realtà possono trarre in inganno chi non le conosce confondendole con vascelli da carico, cosa che probabilmente accadde ai turchi. Solo sei di queste unità rinforzano lo schieramento cristiano ma saranno tanto devastanti sulle galee nemiche quanto sul morale dei loro equipaggi. Per assurdo, con la galeazza si raggiunge l'apice dell'evoluzione della galea, ma nel contempo rappresenta "il canto del cigno". Le galee con la loro propulsione a remi verranno progressivamente sostituite da "velieri" e quindi abbandonate.

Le artiglierie pesanti utilizzate all'epoca sui vascelli si crede possiedano un buon rapporto gittata/efficacia fin quasi al chilometro se puntate su schieramenti compatti. Naturalmente il rapporto gittata/efficacia dovrebbe peggiorare notevolmente puntando il pezzo su singole galee con ampia libertà di manovra.

Per quel che riguarda le armi di "piccolo calibro", all'importanza della gittata è lecito pensare che si debba sostituire la capacità di penetrazione delle protezioni individuali nemiche, l'abilità nella mira e la velocità di ricarica del soldato.
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L'AMMIRAGLIO ANDREA DORIA e LA BATTAGLIA di LEPANTO (parte seconda)
Prima della battaglia

Don Giovanni d'Austria viene nominato comandante della flotta cristiana. Ventiseienne figlio illegittimo del defunto Imperatore Carlo V° e fratellastro del regnante Filippo II° è tra i più abili condottieri dell'epoca. Riuscendo a mantenere assieme gli alleati ottiene già una grande vittoria diplomatica.

Marcantonio Colonna trentaseienne comanda la flotta pontificia composta da galee toscane noleggiate.

Giovanni Andrea Doria trentunenne figlio di Giannettino Doria (morto durante la congiura dei Fieschi), nipote ed erede del grande Ammiraglio Andrea Doria comanda la flotta spagnola per l'Italia.

Agostino Barbarigo comanda il corno sinistro dello schieramento.

L'anziano Sebastiano Venier settantacinquenne comanda la flotta veneziana.

Pietro Giustiniani comanda la flotta dell'Ordine di Malta.

Ettore Spinola comanda la flotta genovese.

Andrea Provana di Leinì comanda la flotta dei Savoia.

Partecipano anche: Pietro Lomellini, Antonio Canal, Giorgio Grimaldi e molti altri personaggi appartenenti alle più prestigiose famiglie nobili italiane.

La flotta cristiana si compone di:
6 galeazze;
oltre 200 galee (205?);
30 navi da carico;
circa 13000 marinai;
circa 44000 rematori;
circa 28000 soldati;
circa 1800 cannoni.

A fine agosto la flotta cristiana comincia a radunarsi a Messina e il 16 settembre, per anticipare la cattiva stagione, salpa alla ricerca del nemico.

Il 26 settembre la flotta giunge nelle acque di Corfù ormai devastata dal corsaro Ulugh Alì ma la notizia peggiore riguarda la caduta di Famagosta (Cipro). La notizia è giunta con notevole ritardo ed è terribile. Il 18 agosto Mustafà Pascià conquista la città promettendo la salvezza per i difensori ma vigliaccamente si rimangia la parola: fa uccidere gli uomini, rende schiave le donne, tortura il Governatore Bragadin, lo fa scuoiare vivo e impagliare per poterlo esporre.

La flotta cristiana prosegue nonostante il maltempo verso Cefalonia dove sosta alcuni giorni. Il 6 ottobre le navi giungono davanti al Golfo di Patrasso.



Le avanguardie cristiane riportano l'avvistamento della flotta ottomana e si decide di dar battaglia.

Il mattino seguente (7/10) le due flotte cominciano a schierarsi. La preparazione è lunga e difficoltosa e solo intorno a mezzogiorno può cominciare la battaglia.

Schieramento cristiano

Da nord (sottocosta) a sud (al largo):

Corno sinistro - 53 galee e 2 galeazze in posizione avanzata;
comandato da Barbarigo;
tra le galee è presente la capitana di Venezia;

Centro - 61 galee e 2 galeazze in posizione avanzata;
comandato da Don Giovanni D'Austria (comandante supremo);
tra le galee sono presenti le capitane di Lomellini, Sauli, Genova (Spinola), Venezia (Venier), Santa Sede (Marcantonio Colonna), Savoia, Grimaldi e Ordine di Malta;

Corno destro - 53 galee e 2 galeazze in posizione avanzata;
comandato da Giovanni Andrea Doria;
tra le galee sono presenti le capitane di Sicilia e Doria;

Retroguardia - 38 galee;
comandata dal Marchese di Santa Cruz.





Schieramento turco

Da nord (sottocosta) a sud (al largo):

Ala destra - 55 galee
comandata da Shoraq (Scirocco);

Centro - 90 galee;
comandato da Alì Pascià (comandante supremo)

Ala sinistra - 90 galee
comandata da Ulugh Alì (probabilmente un calabrese che ha abiurato il cattolicesimo);

Retroguardia - 10 galee e 60 navi minori
comandata da Dragut (omonimo del noto corsaro);



La battaglia

Il vento cambia direzione e all'inizio dello scontro finalmente volge in favore dei cristiani.

La prima mossa spetta ai turchi che avanzano ignorando le potenzialità delle galeazze lasciate volutamente isolate davanti allo schieramento cristiano per poter esprimere al meglio la loro forza.

Scambiate per innocue navi da carico, scaricano sugli ottomani un volume di fuoco probabilmente mai visto prima. Al contrario delle normali galee, ogni lato è munito di artiglierie principali ed il risultato è devastante: morti, feriti, relitti e terrore.



I turchi perdono di compattezza tra le proprie fila e abbandonano al loro destino i vascelli colpiti. Alì Pascià comprende l'impossibilità di impegnare le galeazze e ordina di superarle in gran fretta.

Le linee ottomane, decimate ma ancora combattive, superano le galeazze e cercano lo scontro diretto con lo schieramento cristiano.

Giocato il fattore sorpresa, Don Giovanni D'Austria passa alla tattica classica.

Ora anche i cristiani avanzano a tutta forza incontro ai turchi. I compiti dei tre gruppi sembrano abbastanza chiari ...



1. Barbarigo alla guida del corno sinistro e posizionato sottocosta deve parare il colpo di "Scirocco", impedire che il nemico possa insinuarsi tra le sue navi e la spiaggia per accerchiare la flotta cristiana. La manovra ha solo un parziale successo e lo scontro si accende subito violento. La stessa galea di Barbarigo diventa teatro di un epica battaglia nella battaglia con almeno due capovolgimenti di fronte. Ferito gravemente alla testa, Barbarigo resiste alla morte sino all'arrivo degli aiuti che gli permettono di perire vittorioso nel suo compito. "Scirocco" viene catturato, ucciso e decapitato.

2. Al centro degli schieramenti Alì Pascià cerca e trova la galea di Don Giovanni d'Austria la cui cattura risolverebbe definitivamente lo scontro. Contemporaneamente altre galee impegnano Venier e Marcantonio Colonna. Sulla galea di Don Giovanni si ripete lo scontro cruento a cui ha partecipato Barbarigo. Più volte la nave vede avanzare e poi ritirare i due avversari. La svolta si ha con l'arrivo della riserva del Marchese di Santa Cruz e delle galee di Venier e Marcantonio Colonna disimpegnatisi dai rispettivi avversari. Alì Pascià, già ferito, si suicida per evitare l'umiliante cattura. La testa del defunto comandante ottomano viene esposta contro la volontà di Don Giovanni per porre termine alla battaglia. Anche la bandiera della galea di Alì Pascià cade in mani cristiane a testimonianza della vittoria.

3. Al largo, la situazione è meno cruenta ma un po' più complicata. Giovanni Andrea Doria dispone grossomodo dello stesso numero di galee del Barbarigo ma davanti a se ha quasi il doppio di nemici e oltretutto, la disponibilità di più ampi spazi di manovra rende più probabile l'accerchiamento da parte dell'ala sinistra turca di Ulugh Alì. Giovanni Andrea Doria ha l'analogo compito di Barbarigo, deve impedire a tutti i costi che gli ottomani possano circondare il centro di Don Giovanni e possibilmente chiudere da sud sul centro ottomano. Giovanni Andrea Doria deve coprire un'area più vasta e ciò lo costringe a manovrare al largo. Ulugh Alì approfitta della situazione, si insinua tra il centro ed il corno destro riuscendo a sopraffare alcune galee. E' sua intenzione aggirare e sgominare il corno destro cristiano per poi dirigere la prua verso le posizioni di Don Giovanni d'Austria. Lo scontro al largo si accende e divampa cruento. Le galee di Ulugh Alì devono affrontare non solo quelle di Giovanni Andrea Doria ma anche quelle dell'onnipresente riserva del Marchese di Santa Cruz. Lo scontro al largo si protrae per più di un'ora ma è proprio il temibile Ulugh Alì, considerato il miglior comandante ottomano, a porvi fine. Intuita la disfatta, rivolge la prua, che avrebbe voluto puntare su Don Giovanni d'Austria, verso il mare aperto e fugge a Costantinopoli.



4. Il teatro della battaglia si presenta come uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti. Sono trascorse quasi cinque ore quando la battaglia ha termine con la vittoria cristiana. Don Giovanni d'Austria riorganizza la flotta per proteggerla dalla tempesta che minaccia la zona e invia un paio di galee a Messina per annunciare la vittoria. Ulugh Alì è in rotta verso Costantinopoli. L'Europa è salva e l'Impero Ottomano è stato finalmente fermato.

Conseguenze per G. A. Doria

La vittoria non porta però i giusti riconoscimenti a Giovanni Andrea Doria. Le infamanti accuse di scarso impegno o incapacità se non addirittura accordo con il nemico fomentate non a caso dai veneziani, lasciano il segno influenzando anche il Pontefice. E' possibile che la prima conseguenza sia il rinnovo dell'asiento (contratto con la Spagna) macchiato dalla sostituzione da Consigliere di Don Giovanni.

Risulta però difficile pensare che le accuse mossegli vengano in realtà minimamente credute dai contemporanei dato che negli anni successivi:
Don Giovanni d'Austria lo vuole a suo fianco nell'impresa di Tunisi;
Filippo II° di Spagna lo considera suo "referente" a Genova;
l'Imperatrice d'Austria viaggia sulle sue galee;
Filippo II° lo nomina Generale del Mare come il defunto zio Andrea;
Orazio Pallavicino lo contatta come mediatore per la pace tra Spagna e Inghilterra (infruttuoso);
Filippo II° lo nomina membro del Consiglio di Stato;
Filippo III° lo incarica di guidare la spedizione contro Algeri;
per due volte i regnanti spagnoli rifiutano le sue dimissioni per motivi di salute;
dopo la terza richiesta, accettata, di dimissioni, ancora una volta la Spagna lo incarica di occuparsi dei disordini monegaschi.

Tutti incarichi provenienti da chi deteneva il potere senza la necessità di esprimere falsa adulazione. Incarichi prestigiosi, da assegnare a uomini di fiducia, tuttavia la diffamazione ha lasciato traccia nei libri di storia.



Considerazioni varie

La decisone di Giovanni Andrea Doria di manovrare al largo staccandosi dal centro cristiano sembra essere più una necessità che una scelta.

Le due flotte si schierano in linea ad eccezione delle riserve e da nord (sottocosta) a sud si contrappongono:
53 galee (Barbarigo) - 55 galee (Scirocco);
61 galee (Giovanni d'Austria) - 90 galee (Alì Pascià);
53 galee (Giovanni Andrea Doria) - 90 galee (Ulugh Alì).

Considerando le proporzioni tra gli schieramenti [167(?) - 235(?)], è plausibile che gli ottomani si trovino già inizialmente in condizione di accerchiare i cristiani. La manovra al largo di G. A. Doria diventerebbe quindi necessaria per fermare Ulugh Alì e il conseguente varco tra corno destro e centro cristiano in cui si infila l'ala sinistra ottomana ne è una conseguenza inevitabile. Sarebbe da approfondire anche l'indicazione secondo cui alcune galee del corno destro si sarebbero rifiutate di seguire Giovanni Andrea Doria puntando sul centro della battaglia. Tra le galee viene segnalata la Capitana di Malta ma questa sembra essere invece indicata come appartenente al centro già dall'inizio in una posizione marginale dello schieramento.



due carriere a confronto Giovanni Andrea Doria e Sebastiano Venier


Abitualmente nei resoconti della battaglia di Lepanto e nei profili dei protagonisti, si lascia intendere o immaginare una certa esperienza bellica di Sebastiano Venier. Dai vari testi viene fatta risaltare l'importanza dell'Ammiraglio veneziano e posta in ombra la figura di Giovanni Andrea Doria se non per evidenziarne eventuali comportamenti scorretti e/o sbagliati. Alla fine della battaglia, Venier emerge come soggetto protagonista e positivo mentre Giovanni Andrea Doria risulta elemento negativo o al più secondario.

Le varie fonti non riportano però precedenti bellici di Sebastiano Venier che sembra quindi improvvisarsi Ammiraglio. Al contrario l'esperienza bellica e navale di Giovanni Andrea Doria risulta quasi ventennale. Certo è che il carattere a dir poco brusco e poco accondiscendente del Venier mette a rischio l'alleanza prima ancora dello svolgersi della battaglia.

Alcuni brani tratti da "i Dogi di Venezia nella vita pubblica e privata" di Andrea da Mosto sembrano però descrivere meglio l'Ammiraglio veneziano. Viene sì sottolineato il suo valore nello scontro ma si ricorda anche la sua carriera quale uomo di legge, "amministratore" e "politico". Si rammenta l'inesperienza navale e bellica non avendo mai servito sulle galee. Viene anche riportata una "lagnanza" del Venier in merito ad un'ispezione della propria galea da parte di Giovanni Andrea Doria inviato da Don Giovanni d'Austria. Questo fatto lascia supporre una maggiore fiducia nella capacità di Giovanni Andrea Doria rispetto a quelle di Sebastiano Venier.

Credo che i rapporti sugli accadimenti di Lepanto, probabilmente di fonte veneziana, abbiano nel tempo alterato l'autentico peso storico dei due personaggi a discapito di Giovanni Andrea Doria.



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GIORGIO CASTRIOTA detto SKANDERBEG
Giorgio Castriota Scanderbeg (Gjergj Kastrioti Skënderbeu; Dibra, 6 maggio 1405 - Alessio, 17 gennaio 1468) unì le tribù dell'Epiro e dell'Albania, e resistette per 25 anni ai tentativi di conquista dell'Impero Ottomano; per tale motivo è considerato l'eroe nazionale dell'Albania.

Biografia

Giovinezza

Tra la fine del XIV secolo e i primi decenni del XV secolo l'Albania fu occupata dalle forze ottomane le quali dovettero subito reprimere le rivolte dei principi albanesi. Giovanni Kastrioti principe di Coria, e padre di Giorgio Castriota Scanderbeg, fu proprio uno dei signori ribelli all'occupazione ottomana contro cui il sultano Murad II, infierì più pesantemente poiché Giovanni era uno tra i più indomiti e potenti nobiluomini albanesi. Inoltre prese i suoi quattro figli maschi Stanisha, Reposhi, Costantino e Giorgio come ostaggi conducendoli alla corte di Adrianopoli. Due di loro morirono, probabilmente uccisi, uno si fece monaco, mentre il quarto, Giorgio, abbracciò la fede islamica e gli venne fatta intraprendere la carriera militare.

Alla corte del sultano, Giorgio Kastriota si distinse per capacità ed intelligenza, parlava perfettamente il turco, l'arabo, il greco, l'italiano, il bulgaro e il serbo-croato, oltre all'albanese, divenne esperto nell'uso delle armi nonché di strategia militare, guadagnò a tal punto la stima e la fiducia del sultano, che gli diede un nome islamico: Iskënder Bej (principe Alessandro forse alludendo al macedone Alessandro Magno), che gli Albanesi nazionalizzarono in Skënderbej.


Ritorno in Albania

Dopo una serie di imprese militari portate a termine, brillantemente, nell'interesse dei turchi, la fama del giovane Castriota giunse in Albania e si iniziò a sperare in un suo ritorno in patria. Emissari della sua famiglia lo raggiunsero di nascosto nel quartiere generale del sultano e lo informarono della drammatica situazione degli Albanesi, senza tuttavia ottenere risultati. Il 28 novembre 1443, il sultano diede incarico a Skanderbeg di affrontare una coalizione di eserciti cristiani a maggioranza ungherese guidati dal signore di Transilvania, János Hunyadi ("Il Cavaliere bianco") per riprendersi la Serbia, che il nobile valacco aveva liberato dall'oppressione ottomana. Skanderbeg, influenzato dalle suppliche della sua gente disattese gli ordini del sultano non intervenendo nello scontro, favorendo per giunta una colossale sconfitta turca. Egli, assieme ad altri suoi 300 fedelissimi albanesi, che lottavano per i turchi, decise di combattere per la causa nazionale albanese e con il suo gruppo di soldati si riprese il castello di Krujë, radunò i nobili e diede inizio al grande riscatto del suo popolo. In rapidissima successione, conquistò tutte le fortezze tenute dai mussulmani. Skanderbeg, conquistata la fortezza di Kruje, si auto-proclamò vendicatore della propria famiglia e del poprio paese pronunciando queste famose parole: Non fui io che vi ho portato la libertà, ma la trovai qui, in mezzo a voi.


Guerra contro i Turchi

Il 2 marzo 1444, nella cattedrale veneziana di San Nicola ad Alessio, Scanderbeg organizzò un grande convegno con la maggior parte dei principi albanesi, e con la partecipazione del rappresentante della Repubblica di Venezia; qui egli fu proclamato all'unanimità come guida della nazione albanese. Intanto il sultano Murad II, furioso per il tradimento del suo protetto, inviò contro gli albanesi, un potente esercito guidato da Alì Pascià alla testa di 100.000 uomini. Lo scontro con le forze di Skanderbeg, notevolmente inferiori, avvenne il 29 giugno 1444, a Torvjoll. I turchi riportarono una cocente sconfitta. Il successo di Skanderbeg ebbe vasta risonanza oltre il confine albanese, arrivò fino alle orecchie di Papa Eugenio IV il quale ipotizzò addirittura una nuova crociata contro l'Islam guidata da Skanderbeg.

L'esito dello scontro rese ancora più furibondo il sultano, che ordinò a Firuz Pascià di distruggere Scanderbeg e gli Albanesi e così il comandante ottomano partì alla testa di ben 15.000 cavalieri. Il Castriota lo attese alle gole di Prizren il 10 ottobre 1445 e ancora una volta ne uscì vincitore. Le gesta di Scanderbeg risuonavano per tutto l'occidente, delegazioni del papa e di Alfonso d'Aragona giunsero in Albania per celebrare la straordinaria impresa. Skanderbeg si guadagnò i titoli di "difensore impavido della civiltà occidentale" e "atleta di Cristo".

Ma Murad II non si rassegnava, dispose agli ordini di Mustafà Pascià due eserciti per un complessivo di 25.000 uomini, di cui metà cavalieri, che si scontrarono con gli Albanesi il 27 settembre 1446: l'esito fu disastroso, si salvarono solo pochi turchi e a stento Mustafà Pascià. Le imprese di Scanderbeg, tuttavia, preoccupavano i veneziani, che vedendo in pericolo i traffici nel frattempo stabiliti con i Turchi, si allearono con il sultano per contrastare il Castriota. La battaglia del 3 luglio 1448 vide la sconfitta dei veneziani, che si vendicarono radendo al suolo la fortezza di Balsha.

Nel giugno del 1450, Murad II in persona intervenì contro l'Albania alla testa di 150.000 soldati, assediando il castello di Kruje. I Turchi persero metà dell'esercito e il comandante Firuz Pascià venne ucciso da Skanderbeg. Ma, anche se le straordinarie vittorie avevano inferto profonde ferite alle forze e all'orgoglio turco, avevano pure indebolito le forze albanesi e il Castriota, ben cosciente dei propri limiti, decise di chiedere aiuto ad Alfonso d'Aragona, che si rese disponibile riconoscendo a Skanderbeg il merito di essersi fatto carico di una durissima lotta contro i Turchi, che assai inquietavano la Corona napoletana.

Maometto II, successore di Murad, si rese conto delle gravi conseguenze, che l'alleanza degli albanesi con il Regno di Napoli poteva far nascere, decise quindi di mandare due armate contro l'Albania; una comandata da Hamza-bey, l'altra da Dalip Pascià. Nel luglio del 1452 le due armate furono annientate e mentre Hamza-bey fu catturato, Dalip Pascià invece morì in battaglia.

Altre incursioni turche si tramutarono in sconfitte, Skopje il 22 aprile del 1453, Oranik nel 1456, il 7 settembre 1457 nella valle del fiume Mati. Infine, nel corso del 1459 in una serie di scontri scaturiti da offensive portate questa volta da Skanderbeg, altre tre armate turche furono sbaragliate.

La fama di Skanderbeg fu incontenibile, anche per il fatto che i suoi uomini a disposizione non erano mai più di 20000, al sultano turco non rimase altro che chiedere di trattare la pace, ma il Castriota non ne volle sapere e continuò la sua battaglia.

Nel 1458 si recò in Italia per aiutare Ferdinando I, re di Napoli, figlio del suo amico e protettore Alfonso d'Aragona nella lotta contro il rivale Giovanni d'Angiò e del suo esercito.

Intanto, altre due armate turche comandate da Hussein-bey e Sinan-bey, nel febbraio del 1462, mossero contro gli albanesi costringendo Skanderbeg a rientrare in tutta fretta nella sua patria, per guidare il suo esercito. Ci fu una furiosa battaglia presso Skopjë che vide i turchi annientati e il sogno di Maometto II, di far giungere il potere musulmano fino a Roma infrangersi. La decisione finale fu un trattato di pace firmato il 27 aprile 1463 tra Maometto II e Castriota.

Ferdinando I nel 1464, in segno di riconoscimento per l'aiuto ricevuto da Skanderbeg, concesse al signore albanese i feudi di Monte Sant'Angelo, Trani e San Giovanni Rotondo. Intanto, la morte di papa Pio II ad Ancona, il 14 agosto 1464, determinò il fallimento della grande crociata che il Pontefice aveva in mente e che teneva in grande apprensione il sultano. Quest'ultimo, nel settembre del 1464, incaricò Sceremet-bey di muovere contro gli albanesi, ma i turchi furono nuovamente sconfitti. Il figlio di Sceremet-bey fu catturato e rilasciato a fronte di un grosso riscatto.

L'anno dopo, scongiurato il pericolo della crociata, il Sultano intravide la possibilità di farla finita con il Castriota, mise insieme un poderoso esercito affidandolo ad un traditore albanese, il quale era stato cresciuto allo stesso modo di Scanderbeg, Ballaban Pascià. Ma anche quest'impresa fallì; l'esercito turco in prossimità di Ocrida, fu messo in fuga dalle forze albanesi.

Ancora una volta, nella primavera del 1466, riunì forze imponenti, mosse contro gli albanesi e cinse d'assedio Krujë; una serie di scontri furiosi, nel corso dei quali Ballaban Pascià fu ucciso, portarono Scanderbeg ad un'ennesima e straordinaria vittoria. Maometto II ostinatissimo nella sua lotta contro il Castriota, riorganizzò il suo esercito e, nell'estate del 1467, pose di nuovo l'assedio a Krujë, ma, dopo innumerevoli tentativi, dovette rassegnarsi a sgombrare il campo. Nonostante i successi in imprese, alcune delle quali, assolutamente straordinarie, Skanderbeg si rese conto che resistere alla pressione turca diventava sempre più difficile.

La stessa preoccupazione convinse il doge di Venezia ad inviare Francesco Capello Grimani da Skanderbeg per organizzare una difesa comune, ma l'ambasciatore veneziano non poté portare a termine l'incarico perché Skanderbeg morì di malaria, ad Alessio, il 17 gennaio 1468.

Cruja, l'eroica cittadina, cadde nelle mani turche dieci anni dopo la sua morte.

Erede di Giorgio Castriota fu Giovanni, il figlio avuto dalla moglie Marina Donica Arianiti. Giovanni, a quel tempo, era ancora un fanciullo, si rifugiò con la madre a Napoli, dove fu ospitato affettuosamente da Ferdinando d'Aragona, figlio d'Alfonso.

Nel 1481, Giovanni Castriota radunò alcuni fedelissimi e sbarcò a Durazzo, osannato dal popolo, ma non riuscì a portare a termine alcuna impresa poiché i turchi vanificarono immediatamente i tentativi del figlio di Skanderbeg.

Discendenti

La famiglia Castriota Scanderbeg, alla morte di Giorgio [1], ottenne dalla corona aragonese il ducato di San Pietro in Galatina e la contea di Soleto (Lecce, Italia). Giovanni, figlio di Scanderbeg, sposò Irene Paleologo, ultima discendente della famiglia imperiale di Bisanzio. In virtù di tale imparentamento, i membri della famiglia Castriota Scanderbeg oggi rappresentano gli unici discendenti diretti degli ultimi imperatori di Costantinopoli [2]. Attualmente esistono due linee della famiglia Castriota Scanderbeg d’Albania, una delle quali discende da Pardo e l’altra da Achille, entrambi figli naturali del Duca Ferrante, figlio di Giovanni e nipote di Scanderbeg. Entrambe sono parte da secoli della nobiltà italiana e membri del Sovrano Militare Ordine di Malta con prove di giustizia [3]. L’unica figlia legittima del Duca Ferrante, Erina, nata da Adriana Acquaviva, ereditò lo Stato paterno, portando il ducato di Galatina e la contea di Soleto nella famiglia Sanseverino dopo il suo matrimonio con il principe Pietrantonio Sanseverino. Vi sono stati tentativi da parte di alcuni di accreditarsi quali discendenti di Scanderbeg e appartenenti alla di lui principesca famiglia, pur senza alcun titolo abilitante o documento fidefacente.


Curiosità

Narra una leggenda che Scanderbeg sul punto di morte ordinasse al figlio di sottrarsi dalla vendetta turca fuggendo in Italia; gli disse inoltre che appena fosse sbarcato sulla spiaggia avrebbe trovato un albero presso cui legare il suo cavallo e la sua spada e per sempre quando avesse soffiato il vento i turchi avrebbero sentito la spada di Skanderbeg volteggiare nuovamente nell'aria e il suo cavallo nitrire e, per paura, non lo avrebbero seguito.
Durante gli anni in cui i turchi provavano a conquistare l'impero di Skanderbeg, la strada che portava a Kruje, fu chiamata “jezitjoll”, cioè la via del diavolo.
Un partecipante alla spedizione contro l’Albania disse “il loro guerriero più debole è paragonabile al più forte dei nostri guerrieri turchi”.
Il palazzo a Roma dove risiedette Skanderbeg negli anni 1465-6 porta ancora il suo nome. Nella città è anche presente una statua dedicata ad esso.
Il 22 giugno 1718 il compositore Antonio Vivaldi mise in scena al Teatro della Pergola di Firenze il dramma Scanderbeg su libretto di Antonio Salvi.
Le gesta di Skanderbeg nella battaglia di Krujie sono state raccontate nel romanzo I Tamburi della Pioggia di Ismail Kadare.
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