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Chiesa Valdese di Trapani e Marsala - Perseguitati a causa della giustizia

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2009 21:23
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Perseguitati a causa della giustizia
Domenica 15 Novembre 2009

«Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli. Beati siete quando vi ingiuriano e perseguitano e dicono ogni male contro di voi a causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché il vostro salario è grande nei cieli. Così, infatti, perseguitarono i profeti, quelli prima di voi» (Matteo 5:10-12) 

Qualche settimana fa, se ricordate, avevamo meditato insieme sulla prima di quelle che, nella tradizione ecclesiastica, vengono chiamate «beatitudini», le quali, stando a quanto racconta l'evangelo secondo Matteo, aprono il cosiddetto «discorso della montagna» pronunciato da Gesù. Quella su cui ci soffermeremo quest'oggi, invece, è l'ultima delle «categorie» che Gesù definisce felice: quella dei «perseguitati a motivo della giustizia»; con lei si chiudono le beatitudini. E si chiudono, in maniera significativa e non certo casuale, menzionando la stessa motivazione per cui anche i poveri, nella prima, erano definiti felici: perché loro, ovverosia dei poveri e dei perseguitati, è il Regno dei cieli. Se alla prima categoria, avevamo visto, difficilmente si decide di aderire, figuriamoci a quest'ultima: essere perseguitati non è desiderabile per nessuno; se poi si tratta di una persecuzione che può portare alla morte, le quotazioni scendono ulteriormente. Eppure l'esporsi alla persecuzione a motivo della giustizia dovrebbe costituire uno dei tratti distintivi dell'essere cristiani: e per un certo tempo, di fatto, fu così. L'autore dell'evangelo secondo Matteo, ad esempio, scrive con ogni probabilità ad una comunità che subisce di queste persecuzioni: ed intende rincuorarla, ricordandole che Gesù aveva prefigurato tale destino a chi si fosse disposto a seguirlo.

«Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi s e stesso, prenda la sua croce e mi segua: chiunque, infatti, vuole salvare la propria vita, la perderà; chiunque, invece, perderà la sua vita a causa mia  e dell'evangelo, la salverà» (Mc 8:34-35). Gesù è sempre stato estremamente franco: non ha mai fatto proclami falsamente incoraggianti per guadagnare seguaci, né ha pubblicizzato la sua proposta cercando di farla apparire più allettante di quanto, in realtà, non fosse. Ha detto come stavano le cose: i termini dell'invito (perché di questo si tratta, senza alcun obbligo per nessuno) sono chiarissimi. A ciascuno, poi, accettarli o respingerli. Ancora una volta, Gesù poteva avanzare tale richiesta a pieno titolo, perché egli per primo accettò di subire la persecuzione dei potenti a motivo dell'evangelo che annunciava: un evangelo che parlava di un Dio giusto perché parziale verso gli oppressi e di un Regno di giustizia che di questi oppressi intende ristabilire il diritto quotidianamente calpestato. In questo credeva Gesù, questo era ciò che annunciava e questo chiedeva anche alle sue e ad i suoi di vivere, senza menzogne o illusioni riguardo alle conseguenze che, inevitabilmente, una tale scelta comporta. Il suo incoraggiamento ed il suo convincimento avevano radici profonde, che affondavano nelle vite e nel destino dei profeti d'Israele: donne e uomini che avevano sfidato il monopolio dei tradizionalisti in nome di una tradizione che amavano e di cui intendevano recuperare il senso più autentico e dimenticato; quella tradizione custodita nei testi biblici e che racconta di un Dio che combatte i potenti ed i loro soprusi difendendo i deboli e le loro rivendicazioni. Un Dio schierato, che i poteri costituiti, politici come religiosi, rifiuteranno sempre, contrapponendogli un Dio a loro immagine e somiglianza, un Dio a tutela dei loro privilegi, un Dio che serva esclusivamente a mantenere sempre le cose così come stanno. 

Vi immagino stanchi a questo punto, sebbene questa predicazione non sia iniziata poi da molto: si tratta di cose che abbiamo dette e ridette, in modi diversi, certo, ma alla fine ridondanti, ripetitivi; siamo di fronte alla solita sottolineatura di un evangelo sociale, rivoluzionario, anti-convenzionale. Ma anche questo, alla fine, rischia di essere appena un messaggio che si ripropone stancamente, esattamente come quelli che tanto spesso facciamo oggetto delle nostre perplessità come delle nostre critiche. Oggi, però, vorrei ricordare insieme con voi che tanta insistenza non è vano sproloquio, incrollabile convincimento ideologico o pura testardaggine che dell'evangelo e nell'evangelo non riesce a scorgere altro. Oggi vorrei provare a dare a queste parole il loro volto di storie vissute e sofferte, la loro consistenza incarnatasi in vite reali e concrete. 

Siamo in Salvador, minuscolo stato dell'America Centrale, nel quale imperversa, da oltre dieci anni, ormai, un conflitto violento e disumano, voluto proprio da quei potenti stanti a capo di una nazione che temeva il socialismo come un virus mortale e che, per sradicarlo, decise di fare dell'intero continente latino-americano il proprio cortile di casa. Questa nazione che sino ad oggi ama definirsi patria della democrazia, ostinandosi ad esportarla come un qualsiasi prodotto della sua inguaribile logica commerciale, facilitò in Salvador, come in tutti i Paesi ispano-americani, l'ascesa al potere di una dittatura militare. Contro quest'ultima scesero in campo numerose forze provenienti dalla società civile, protestando, opponendosi, organizzandosi.

Tra di esse vi erano le piccole realtà di base della chiesa cattolica locale, luoghi entro i quali si provava a costruire una democrazia reale e a viverla in maniera concreta e quotidiana. Santa Romana Chiesa, da parte sua, temeva tali esperienze tanto quanto il grande fratello statunitense temeva il socialismo: a tal punto che vennero ipotizzati evidenti rapporti tra questi due tentativi di costruire democrazia in maniera, si capisce, pericolosamente sovversiva. E sovversivi, difatti, venivano chiamati gli uni e gli altri, membri delle comunità di base e aderenti al partito socialista. Curia romana e servizi segreti americani si affrettarono ad arginare il fenomeno, sostenendo ideologicamente e finanziariamente la dittatura o, nel migliore dei casi, tacendone gli efferati crimini. L'una prese a combattere, anche con documenti ufficiali, la Teologia della Liberazione; l'altra a tacciare di terrorismo chiunque si opponesse al regime militare. 

In questo periodo buio e violento, una piccola comunità di sacerdoti gesuiti aveva incominciato a seminare cultura, a instillare libertà, a promuovere consapevolezza: in fin dei conti, a proclamare giustizia. Fu così che, all’alba del 16 novembre 1989, un gruppo di militari del battaglione Atlacatl, un'unità specificamente addestrata negli Stati Uniti alla lotta antiguerriglia, fece irruzione nella piccola abitazione attigua alla sede dell’università e uccise a sangue freddo i religiosi Ignacio Ellacuría, Segundo Montés, Ignacio Martín Baro, Joaquín Lopez y Lopez, Juan Ramon Moreno e Amando Lopez, oltre alla cuoca Elba Julia Ramos e a sua figlia quindicenne Celina Mariceth Ramos. Tutto, chiaramente, nel silenzio quasi generale, che è poi una sorta di tacita complicità. 

A distanza di vent'anni esatti da quell'eccidio vogliamo fare memoria, quest'oggi, di queste e questi martiri che appartengono a tutti e non soltanto alla loro chiesa, proprio perché furono uccisi a motivo della giustizia, in quanto rivendicavano libertà per gli oppressi dalla violenza di una dittatura. Di questa violenza furono vittime: ma noi, mantenendo vivo il ricordo di ciò che è stato, opponendoci a che questo evento venga frettolosamente dimenticato, vogliamo impedire che queste donne e questi uomini vengano uccisi due volte. Noi, infatti, ci sentiamo la loro comunità di fede, ancora impegnata a contrastare quell'ingiustizia che intese imbavagliarli, mettendoli a morte. «Così, infatti, perseguitarono i profeti, quelli prima di voi», dice Gesù nel nostro passo di oggi: «quelli prima di voi», perché anche voi lo siete, perché anche noi siamo chiamate e chiamati ad essere comunità profetiche, luoghi della denuncia, così come dell'annuncio e della realizzazione di realtà e di relazioni più eque.

Ignacio Ellacurìa, insieme con i suoi fratelli e con tutte le Comunità di Base, hanno lottato e continuano a lottare per una liberazione integrale delle donne e degli uomini ingiustamente vessati ed oppressi. Spesso si originano resistenze, specie in ambito ecclesiastico, di fronte a tale atteggiamento, di modo che le chiese finiscono per dimostrarsi conniventi con quei poteri e quei potenti che fanno del sopruso la loro logica e la loro prassi. Il teologo Armido Rizzi, in un libro volutamente ignorato dalla teologia «ufficiale», fornisce di questo compito di liberazione a cui siamo chiamate e chiamati la definizione che trovo più poetica ed appropriata:

«Liberazione è ogni atto che, in obbedienza alla signoria dell'Amore, aderisce all'uomo per dargli vita»

(RIZZI, A. Dio in cerca dell'uomo, Paoline, Cinisello Balsamo, 1987)

Pastore Alessandro Esposito

culto del 15 nov 2009

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