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Chiesa Valdese di Trapani e Marsala - La testimonianza di Stefano

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2009 21:25
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La testimonianza di Stefano

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Una chiesa disobbediente                    di A.Esposito

Stefano, pieno di grazia e di potenza, operava guarigioni e grandi segni tra il popolo. Si levarono allora alcuni tra quelli della sinagoga chiamata dei liberti, dei cirenei, degli alessandrini e di quelli della Cilicia e dell'Asia a disputare con Stefano: e non potevano resistere alla sapienza e allo spirito con cui egli parlava. Allora misero su uomini che dicevano: “Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme su Mosè e su Dio”. E sobillarono il popolo, gli anziani e gli scribi che, sopraggiunti, lo afferrarono e lo condussero presso il sinedrio. E produssero falsi testimoni che asserivano: “Quest'uomo non cessa di pronunciare parole contro questo santo luogo e contro la legge”  (Atti 6:8-13)

L'Altissimo non abita in edifici fatti da mani d'uomo. Come dice il profeta:

Il cielo è il mio trono e la terra sgabello dei miei piedi. Quale casa mi costruirete - dice il Signore - o quale luogo per il mio riposo? Non ha forse la mia mano fatte tutte queste cose? (Is 66:1-2a)

Duri di cervice e incirconcisi di cuore e d'orecchi, voi sempre allo spirito santo resistete: come i vostri padri, anche voi. Quale dei profeti non perseguitarono i vostri padri? Uccisero quanti avevano preannunciata la venuta del giusto, di cui ora, voi, siete stati coloro che lo hanno consegnato e ucciso. Voi: che avete ricevuta la legge per disposizione di messaggeri e non l'avete custodita. (Atti 7:48-53)

Ci troviamo, una volta ancora, in Gerusalemme. Gesù è stato ucciso da poco dai romani, su richiesta di una parte delle autorità del tempio, esponenti tanto del potere religioso, quanto di quello politico. Stefano, insieme a Filippo e ad altri cinque uomini, è stato scelto per dedicarsi al servizio dei bisognosi che vivono in Gerusalemme e che frequentano la nascente comunità cristiana, ancora legata al tempio e alle tradizioni ebraiche. Ecco che, però, Stefano non si limita a questo compito, così come invece gli apostoli avevano predisposto per lui: no, Stefano, così come il suo maestro Gesù, decide di accompagnare il suo agire in favore dei bisognosi con la testimonianza dell'evangelo. Una testimonianza che, si sa, mentre annuncia, denuncia. Con probabile dispiacere da parte di Pietro e del gruppo dei dodici che avrebbe desiderato riservare per sé la predicazione - quella, per così dire, “corretta”, quella a cui aveva diritto soltanto il ristretto gruppo di persone, o meglio, di maschi, che aveva conosciuto direttamente Gesù - ebbene, con il dispiacere e la disapprovazione di costoro, immaginiamo, Stefano decise di accompagnare al servizio la predicazione dell'evangelo: le due cose, per lui, andavano necessariamente insieme. L'una si alimentava a partire dall'altra, senza incompatibilità: si trattava di due aspetti irrinunciabili e complementari della stessa testimonianza. A volte il fatto che qualcuno si dedichi al servizio dei poveri provvedendo alle loro necessità materiali viene tollerato di buon grado, anzi, viene persino incoraggiato. Che qualcuno però annunci loro un messaggio di liberazione, un Dio che sta dalla loro parte e li incoraggia a sollevarsi dal giogo dell'oppressione, questo non è gradito né accettabile. Questo è da considerarsi insubordinazione, reato di “lesa maestà”.

“Serviteli pure, i poveri: soccorrete la loro indigenza, coprite i loro corpi nudi e riempite le loro viscere vuote. Ma non risvegliate in loro nessun tipo di coscienza, non annunciate loro niente di ciò che possa spingerli a scuotersi dalla loro condizione: con queste cose l'evangelo non ha nulla a che vedere”.  Così a detta di molti, allora come oggi. Stefano non ci sta: dopo che si è visto confinare in un compito di puro servizio, comprende che per servire veramente e degnamente gli oppressi deve incominciare anche a parlare: e sarà questo, non il suo servizio, a disturbare i potenti e le loro logiche di dominio. Eppure sarà proprio quest'annuncio della Parola ciò che Stefano interpreterà come servizio reso agli ultimi e, quindi, al Dio d'Israele, al Dio dei profeti e di Gesù del cui regno egli intende testimoniare.

Così come avvenne per il suo maestro, Stefano viene condotto dinanzi al sinedrio, assemblea dei capi politici e religiosi di Gerusalemme, per rendere ragione delle cose che, si dice, avesse detto. Di che cosa lo si accusa? Il nostro testo ci informa a tale riguardo: lo fa, però, in due modi diversi. Una prima volta viene riferito: “Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme su Mosè e su Dio” (Atti 6:11). Una seconda volta, invece, si afferma un qualcosa di diverso: “Quest'uomo non cessa di pronunciare parole contro questo santo luogo (ovverosia il tempio) e contro la legge”. (Atti 6:13). A ben pensarci si tratta di accuse che appaiono simili, ma che sono in realtà profondamente diverse. Stefano viene accusato di offendere Dio e Mosè, suo sommo profeta, per il fatto di denunciare la corruzione del tempio e l'uso della legge a tutela dei propri interessi da parte della classe sacerdotale. Qual è, dunque, il vero problema?

Fondamentalmente uno: l'identificazione totale, senza alcuna riserva, tra la Parola di Dio e l'istituzione che se ne (auto)proclama unica interprete. Non c'è spazio per alcun dialogo, per alcuna opinione divergente o non allineata: l'interpretazione corretta è una sola, si tratta di aderirvi e di sottoscriverla. Nient'altro. È sorprendente, anche se triste, talvolta, constatare la grande attualità dei testi biblici: pretese di possedere una verità unica sono all'ordine del giorno. Specie, purtroppo, in ambito ecclesiastico. Dio è il Dio che io ho compreso e che ti propongo: tu non devi fare altro se non adeguarti. Eppure il Dio biblico sembra presentare caratteristiche diverse: è un Dio dai mille volti, che chiama ciascuna e ciascuno a scoprirlo attraverso il proprio personale percorso, in piena libertà, senza rinunciare alla bellezza della spontaneità, senza formule che chiudano in gabbie la fantasia e la creatività. Ancora oggi, in non poche realtà, criticare un'istituzione o alcuni dei suoi aspetti o delle sue strutture organizzative o dogmatiche, viene spesso confuso con il criticare quel Dio di cui esse vogliono essere testimoni. Eppure sono diversi i testi biblici che attestano che le cose non stanno esattamente così: e il cristianesimo protestante, che non riconosce altra autorità in materia di fede che non sia quella delle scritture del primo e del secondo testamento, in tal senso è inevitabilmente esposto ad un rinnovamento continuo, che affonda le proprie radici e le proprie ragioni nella costante rilettura e reinterpretazione di questi testi. Il modo protestante di essere cristiani è un modo del cammino e del costante ripensamento della propria fede che lungo questo cammino si compie: per il protestante “essere cristiano” può significare, solamente, “diventarlo”, ogni giorno di nuovo.

Difensori di presunte verità ce ne sono sempre stati e ce ne saranno sempre; oggi vorrei rispondere loro con le parole di Stefano che, a sua volta, prende a prestito quelle pronunciate dal sommo dei poeti d'Israele, tanto amato e citato da Gesù: Isaia. Dicono, quasi in coro, Isaia, Gesù e Stefano:
L'Altissimo non abita in edifici fatti da mani d'uomo.  

Già. E viene da dire: per fortuna. Le chiese tutte e le rispettive teologie sulle quali esse si fondano, sono edifici adatti soltanto ad ospitare Dio, non a imprigionarlo. Sono luoghi in cui cogliere, lontana, l'eco della Sua Parola che, però, preferisce danzare libera nel vento, disertare i templi quando essi vogliono dimostrarsi capaci di custodirla. Già: perché l'accusa finale che Stefano rivolge ai sacerdoti del tempio è proprio questa: la Parola l'avete ricevuta, ma non avete saputo custodirla. Stefano è andato a dire questa cosa proprio a coloro che si autoritenevano “i custodi” di Dio attraverso la tradizione: eppure ogni tradizione muore quando la si lasci nelle mani dei tradizionalisti, che ne fanno immediatamente un “deposito”. Ma Dio si rivela attraverso la Parola proprio perché essa non può essere accumulata in “depositi”, a mo' di forzieri entro cui racchiudere i risparmi faticosamente accumulati: la fede richiede svuotamento, non accumulo, poiché l'unico spazio adatto a custodire quella Parola da cui essa, come fede, nasce, non è il tempio, ma il cuore. La fede, come la manna del Sinai, va cercata ogni giorno di nuovo; e, proprio come la manna, non si sa esattamente di che cosa si tratti. 

Un'ultima curiosità. Stefano, così come Filippo, era un discepolo di Gesù, un testimone dell'evangelo, rivolto, in primo luogo, ai poveri; ma non era un apostolo. Anzi, lo abbiamo visto: egli trasgredisce apertamente le direttive impostegli dai dodici, alla luce delle quali egli si sarebbe dovuto limitare al servizio degli ultimi; alla predicazione ci avrebbero pensato loro, “i dodici”. Anche il cristianesimo nascente incomincia, sin da subito, a costruire il proprio edificio entro il quale confinare Dio. Stefano non ci sta e segue Dio al di là dei confini tracciati dagli uomini. Stefano va alla scoperta di Dio, non crede di averlo già trovato: va incontro al destino che Gesù aveva annunciato a chi avesse deciso di seguirlo, di diventare, appunto, suo discepolo. Non così gli apostoli, che a questo destino lo abbandonarono, proprio come, poco prima, vi avevano abbandonato Gesù. Presto la chiesa che si accomoderà con i poteri del suo tempo si definirà “apostolica”. Noi, però, abbiamo bisogno di una chiesa di discepole e di discepoli, più che di apostoli: una chiesa che testimoni Dio attraverso il servizio ai poveri reso con l'annuncio di un evangelo di liberazione che è stato proclamato per loro. Una chiesa preoccupata del servizio più che dell'autorità. Una chiesa che discende da chi ha saputo disobbedire all'assegnazione di un compito a cui si era stati relegati proprio in nome di un'autorità umana.

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